All’indomani dell’omicidio di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, seviziate e uccise, e infine i loro corpi furono dati alle fiamme, il 2 luglio 1983 a Ponticelli, gli affiliati alla Nuova Camorra Organizzata, il clan fondato dal boss Raffaele Cutolo, avviarono immediatamente le indagini volte a stanare il colpevole per giustiziarlo.
Gli emissari di Cutolo miravano a replicare il copione andato in scena all’indomani dell‘omicidio della tredicenne Raffaella Esposito scomparsa il 13 gennaio 1981 dal comune vesuviano di Somma Vesuviana. La piccola uscì di scuola intorno a mezzogiorno e sparì risucchiata nel nulla, mentre si dirigeva verso casa a piedi.
A riprova della politica intransigente imposta da Cutolo, alla redazione del quotidiano “Il Mattino” giunge una lettera dai contenuti espliciti: “Noi uomini di Cutolo non ammettiamo che si tocchino i bambini. Liberate la piccola, sennò pagherete”.
Un ultimatum che non sortisce effetto: il 13 marzo di quello stesso anno, esattamente due mesi dopo la sparizione della 13enne, il suo cadavere viene ritrovato in un pozzo ad Ottaviano, proprio nel comune-simbolo dell’egemonia del boss Raffaele Cutolo.
L’autopsia rivela che Raffaella non ha subìto violenze. Quindi non si è trattato di un delitto a sfondo sessuale. La mancanza di una richiesta di riscatto esclude anche la pista del rapimento.
Un’insegnante riferirà di aver visto la bambina salire su un’auto di colore rosso quel giorno. Un indizio che porta gli inquirenti a mettersi sulle tracce di Giovanni Castiello, proprietario di una 127 rossa. Tuttavia, gli indizi a suo carico non si rivelano sufficienti per tenere in piedi l’impianto accusatorio e l’uomo viene scarcerato. A quel punto, entra in azione il braccio armato della NCO. Castiello viene giustiziato e il clan di Cutolo rivendica l’omicidio con un messaggio breve, ma incisivo attraverso una telefonata alla redazione de “Il Mattino”: «La camorra ha giustiziato l’assassino della piccola Raffaella Esposito; i bambini non si toccano».
Un omicidio dettato da una logica ben precisa ed imposta dal severo codice d’onore che ispirava le gesta camorristiche del boss di Ottaviano. Motivo per il quale, i pedofili e gli autori di infanticidi venivano condannati a morte da ‘o professore.
All’indomani di acclarati abusi sessuali su minori o di infanticidi era puntuale abitudine di Cutolo dare mandato ai suoi emissari di avviare serrate indagini a tappeto, volte a stanare l’orco e giustiziarlo per bruciare sul tempo lo Stato e le sue leggi.
Un ingegnoso espediente che mirava ad imporre la supremazia del suo codice d’onore, quindi, delle leggi della camorra, anche per consolidare il consenso popolare al fine di poter beneficiare di omertà e connivenza.
Da queste premesse partirono le indagini a tappeto condotte dagli affiliati alla NCO radicati nel quartiere e finalizzate a stanare “il mostro” che aveva assassinato le due bambine.
Le indagini condotte dai carabinieri portarono nel giro di due mesi all’arresto di Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo, tre ventenni di San Giorgio a Cremano che erano soliti frequentare il rione Incis, la zona in cui vivevano le bambine e in cui maturò il delitto. Proprio per questo motivo, gli emissari di Cutolo si concentrarono prima su di loro per disporre delle prove certe della loro colpevolezza, affinchè potessero essere giustiziati in carcere.
Fu così che per diverso tempo pedinarono le fidanzate dei tre con il chiaro intento di carpire una frase, un gesto, un elemento che potesse conferire una prova certa, attendibile, inconfutabile della colpevolezza dei giovani. Tuttavia, quei pedinamenti non rivelarono altro che l’inconsolabile sofferenza delle ragazze, pronte a mostrare tutta la loro sincera disperazione alle persone che incontravano, affinchè non dessero credito a quelle infamanti accuse.
Le indagini condotte dai carabinieri, inoltre, furono contraddistinte dai metodi violenti utilizzati: minacce, percosse e finanche arresti per falsa testimonianza. Un modus operandi che seminò omertà e paura, dissuadendo i testimoni in grado di fornire un alibi ai ragazzi dal palesarsi alle forze dell’ordine.
Sull’altro versante, a dare la caccia al colpevole sono soggetti nati e cresciuti nel quartiere, notoriamente addentrati nelle dinamiche camorristiche e pertanto intenzionati a stanare il colpevole per ucciderlo: non risulta difficile dedurre che gli abitanti del posto abbiano privilegiato le indagini avviate dagli emissari di Cutolo, i quali interrogando gli abitanti del rione Incis sarebbero risaliti all’identità del vero responsabile del “massacro di Ponticelli”.
Quando scoppiò la guerra tra la NCO e la Nuova Famiglia e il clan di Cutolo iniziò ad andare incontro alla dissoluzione, quegli emissari che avevano condotto le indagini per conto di ‘o professore divennero le fedeli reclute di un boss che si era fatto le ossa tra le brutture della malavita proprio al soldo del boss di ‘o professore: Ciro Sarno, un giovane nato e cresciuto nel rione De Gasperi di Ponticelli.
Quei gregari, nel riportare al nuovo boss di Ponticelli l’esito delle indagini condotte in seguito all’assassinio delle bambine, indicarono il responsabile non fornendo un nome e un cognome, ma un elemento ben preciso: “è stato quello che si è buttato giù”.
Una frase che riconduce a Luigi Anzovino, fratello di uno dei testimoni chiave della vicenda che tra le tante cose addita uno dei tre ragazzi come l’adescatore delle bambine, il famoso “Gino tutte lentiggini” con il quale avevano preso un appuntamento il giorno prima.
Luigi Anzovino è un ventiduenne abitante del rione Incis con seri problemi psichici ed era stato arrestato per atti di libidine violenta contro un bambino. Poche settimane dopo l’omicidio di Barbara e Nunzia cerca di violentare la sorella, sferrandole diverse coltellate con un coltello a serramanico, la stessa arma utilizzata dall’assassino delle bambine. Di lì a poco, Anzovino fu arrestato e poi scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare dopo 28 mesi trascorsi nel carcere di Poggioreale nella stessa cella dei tre ragazzi accusati del “massacro di Ponticelli” e inviato al soggiorno obbligato in un comune del salernitano dal quale scappò per fare ritorno a casa, nel rione Incis.
Gli emissari della camorra raccolsero svariate testimonianze ascoltando gli abitanti del rione: in tanti indicarono come l’autore dell’omicidio delle due bambine. A rafforzare il quadro accusatorio concorse anche l’aggressione perpetrata ai danni della sorella: l’assassino di Barbara e Nunzia era un sadico che provava piacere nel provocare dolore alle vittime, motivo per il quale si accanì sui loro corpicini provocandogli plurime ferite, prima di sferrare la coltellata letale. Proprio come fece Anzovino con sua sorella, utilizzando la stessa arma, per giunta.
La conferma della sua colpevolezza, secondo i detective della camorra, andrebbe ricercata anche nel gesto estremo compiuto dal giovane quando vide sotto casa le auto dei carabinieri che erano andati a prelevarlo per riportarlo in carcere: aprì la finestra e si lanciò nel vuoto.
Uno dei soggetti coinvolti nelle indagini avviate dalla camorra, a tal proposito, avrebbe confessato al boss Ciro Sarno che Anzovino, probabilmente raggiunto dai rumors di popolo che commentavano la presenza degli emissari della camorra intenzionati ad indentificare “il mostro” per ucciderlo, nel vedere irrompere quelle auto nei pressi della sua abitazione, potrebbe aver ipotizzato che fossero proprio i camorristi travestiti da carabinieri, intenzionati a prelevarlo ed ucciderlo senza destare scalpore. Piano che, in effetti, i camorristi si accingevano ad eseguire.
In ogni caso, i camorristi dell’epoca, giunsero alla conclusione che ormai consapevole di essere stato condannato a morte e che quella sentenza lo avrebbe raggiunto anche tra le mura del carcere, Anzovino evitò di andare incontro alle atroci torture e alla morte violenta che il codice d’onore della camorra gli avrebbe riservato, optando per il suicidio.
Il fatto stesso che poco dopo “il massacro di Ponticelli” la sorella di Anzovino fu vittima di un’aggressione simile a quella delle bambine, ma dopo la morte del fratello non si registrarono mai più episodi di quel tipo, porta i camorristi a non avere alcun dubbio circa la colpevolezza del ventenne.
Del resto, un boss che mira ad essere rispettato e osannato dalla gente comune, non poteva rischiare incidenti di percorso assassinando un innocente in quanto, qualora il vero colpevole fosse entrato ancora in azione, avrebbe “perso la faccia” agli occhi della collettività.