La cattura di Matteo Messina Denaro, boss di Cosa Nostra latitante da 30 anni, sancisce un momento storico, non solo per l’importanza dell’evento, ma soprattutto perchè decreta una sorta di “passaggio del testimone” tra i ranghi delle fila mafiose. Messina Denaro è l’ultimo dei padrini delle stragi, registi e attori della strategia della tensione corleonese che hanno segnato la storia d’Italia, i suoi compari sono morti o sono già in carcere, alcuni da quasi trent’anni. Ricercato dal 1993, la sua latitanza aveva preso il via contestualmente all’arresto di Totò Riina e la sua cattura è avvenuta proprio il giorno seguente al trentesimo anniversario dell’arresto del “capo dei capi”, mentre era in corso l’attacco terroristico di Cosa nostra alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui Matteo Messina Denaro è stato uno dei protagonisti.
In seguito all’uscita di scena delle figure apicali di Cosa Nostra, Messina Denaro andò incontro ad una rapida carriera mafiosa diventandone il capo, ma anche il simbolo del potere del male: ricercato, ma mai trovato, nonchè custode di numerosi segreti.
Sulla località in cui potesse nascondersi si sono alternate, nel corso degli anni, le ipotesi più disparate. Molte le piste che conducevano all’estero, ma poi le indagini puntualmente confluivano in Sicilia, fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante.
«Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi», dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Seppure l’attività ereditata dal padre lo collocò a capo della cosca di famiglia. Una carriera precoce la sua, iniziata quando era ancora un ragazzino per espresso volere del padre che lo fece partecipare agli omicidi di quattro uomini d’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, secondo le usanze del tempo. Secondo il racconto dei pentiti, aveva ucciso anche prima, quando era ancora «un ragazzino», addirittura minorenne.
Sono almeno venti le condanne all’ergastolo incassate da Matteo Messina Denaro per altrettanti delitti.
Il legame stretto dei Messina Denaro con Totò Riina lo confermò lo stesso “capo dei capi” nei suoi colloqui con il compagno di detenzione, intercettati in carcere nel 2013: «Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanto anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio». Poi passò a parlare del figlio: «Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…». Finché non cominciò a pensare prima di tutto a sé, a investire per conto proprio, ad esempio nell’energia eolica, quasi dimenticando il destino dell’organizzazione, guadagnandosi per questo i rimbrotti di Riina: «A me dispiace dirlo, questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di…». È quasi una scomunica, quella del padrino corleonese, nei confronti del figlioccio affidatogli da «‘u zu Ciccio», che dopo il 1993 non decise di proseguire con la strategia delle bombe: «Se ci fosse stato qualcun altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, non hanno intenzione di continuare…». Si sentiva tradito, Totò Riina: «Una persona responsabile ce l’ho, e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo…. Io non so più niente… Potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero».
Matteo Messina Denaro, invece, era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato, finché le indagini della polizia e della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel canale di comunicazione.
Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d’origine, finita quasi interamente in carcere, ma conservando – anche a distanza – quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia. Nel 1992 Riina l’aveva spedito a Roma per organizzare lì l’uccisione di Giovanni Falcone, prima di richiamarlo in Sicilia perché aveva optato per «cose più grosse quaggiù», cioè la bomba di Capaci.
Nel frattempo Messina Denaro s’era messo sulle tracce di Maurizio Costanzo, infiltrandosi pure tra il pubblico del teatro Parioli insieme all’altro mafioso stragista Giuseppe Graviano; un anno dopo Costanzo restò miracolosamente illeso nell’esplosione di via Fauro che avrebbe dovuto ucciderlo insieme alla moglie e all’autista. Catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo decise di aderire all’idea della «mafia sommersa» messa in pratica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro.
I pizzini recapitati a mano sono sempre stata la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non solo non aveva rapporti con lui, ma nemmeno lo ha mai «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi.
Tra i tanti segreti custoditi dall’ultimo capo di Cosa Nostra catturato oggi, potrebbero esserci informazioni utili a risalire all’archivio segreto di Riina sfuggito ai carabinieri nella mancata perquisizione nel covo del boss di trent’anni fa.