Tommaso Schisa è il collaboratore di giustizia più contestato e chiacchierato nei rioni di Ponticelli in cui la camorra prova a sopravvivere, non solo perchè con le dichiarazioni rese alla magistratura ha contribuito a sgominare il cartello camorristico di cui lui e la sua famiglia sono stati parte integrante.
32 anni compiuti oggi, gran parte dei quali trascorsi in carcere, fin da quando poco più che 18enne fu arrestato per l’omicidio di un giovane, avvenuto durante una lite tra bande che vide i rampolli dei Sarno azzuffarsi con un’altra paranza di giovani, all’esterno di un bar di San Giorgio a Cremano al culmine di u’ escalation di scaramucce, prima verbali e poi sfociate negli spari in cui ad avere la peggio fu il giovane Umberto Improta.
Quella di Tommaso Schisa è la storia di un predestinato che ha avuto il coraggio di rinnegare la camorra. Nel suo caso, dissociarsi dalla camorra ha voluto dire disconoscere il suo stesso sangue, nel senso letterale del termine.
Suo padre è Roberto Schisa, fedelissimo dei Sarno che pur di manifestare lealtà al clan non si fece scrupoli ad uccidere il fratello Giuseppe. Roberto Schisa è stato condannato al carcere a vita per aver partecipato alla strage del Bar Sayonara. A differenza dei fratelli Sarno e degli altri affiliati che hanno deciso di collaborare con la giustizia, Roberto Schisa non si è mai pentito, malgrado l’atto di servilismo riconosciuto alla camorra lo condanni a trascorrere il resto dei suoi giorni in carcere.
Sua madre è Luisa De Stefano, “la pazzignana”, la mamma-matrona, reggente del clan di famiglia che all’indomani della bufera scaturita dal pentimento dei Sarno ha saldamente mantenuto le redini della cosca tra le mani, subendo e patendo anni di umiliazioni ed angherie, per poi deliberatamente vendicarsi quando è tornata in auge, spalleggiata dalle altre famiglie d’onore dell’aria orientale di Napoli. A fungere da collante tra i membri dell’alleanza è proprio il sentimento di odio alacre covato verso i Sarno, rei di aver distrutto un impero del male e di aver privato quelle famiglie dei boss/uomini d’onore più rappresentativi, oltre che del capofamiglia.
Cresciuto da una mamma-camorra, privato della presenza del padre dagli odiati pentiti: soprattutto per questo la collaborazione del giovane Schisa ha destato scalpore e ha fatto infuriare i suoi familiari.
Tommaso Schisa non è stato un pusher o un manovale, malgrado la giovane età ha ricoperto un ruolo cruciale nell’ambito dello scenario camorristico, non solo dell’area orientale di Napoli, ma anche del vesuviano, complice il legame sentimentale con la figlia del boss di Marigliano Luigi Esposito detto lo sciamarro; ha ucciso, ha rapinato, ha estorto denaro sotto minaccia, ha impugnato armi, ha fatto “i reati veri”, come si dice nel gergo malavitoso per sottolineare lo status di un elemento di spicco della malavita.
La costante che ha segnato la prima parte della sua esistenza va ricercata nei lunghi periodi di detenzione che si alternavano a scampoli di libertà. Tommaso Schisa è uno dei tanti ragazzi fagocitati dal credo camorristico e per questo costretti a trascorrere gli anni della giovinezza in carcere. Quello che dovrebbe essere il periodo più bello e spensierato della vita di ciascun individuo e che, invece, nei contesti in cui a dominare la scena è la malavita, viene trasformato in un baratro senza via d’uscita. Un vicolo cieco che i giovani imboccano con fierezza e convinzione, ma all’alba dei 29 anni, Tommaso ha invertito la rotta, interrompendo quella vortice di eventi che sembrava eternamente condannarlo al carcere, salvo concedersi flebili scampoli di libertà, utilizzati principalmente per tornare a delinquere.
Non era facile, non era scontato, era tutt’altro che prevedibile: ma Tommaso Schisa è riuscito a farlo. Ha messo letteralmente a tacere i sentimenti, anche quelli imprescindibili, come l’amore materno, per uccidere il boss che è stato e consentire così all’uomo che potrebbe diventare di farsi spazio tra i relitti di una vita fatta di sangue, spari, e “reati veri”.
Tommaso era il predestinato, l’erede chiamato a portare in gloria il clan di famiglia, quello fondato da Antonio Piscopo “il pazzignano”, il padre di Luigi, anch’egli condannato all’ergastolo per la strage del Sayonara. Anche lui, come Roberto Schisa, non ha mia voluto saperne di pentirsi.
L’onore, la vendetta, l’odio verso i pentiti, il sangue che si lava con il sangue, l’omertà, “la galera che si fa seduti sulla tazza del cesso” (frase utilizzata per sottolineare la dura tempra di un vero camorrista che non viene scalfita neanche dalla condanna al carcere a vita): questi i valori inculcati al giovane Schisa che, dal suo canto, dopo aver incassato l’ennesima condanna che lo costringeva a trascorrere 12 anni in carcere, quando ha provato ad immaginare il suo futuro, ha visto un trailer che riproduceva all’infinito la sequenza di eventi già vissuta in passato e così ha deciso di spezzare bruscamente quella catena, concorrendo a mettere fine ad un’era camorristica.
A riprova delle grandi aspettative che la famiglia/clan riponeva in Tommaso Schisa vi è la foto iconica che campeggia nelle case di tutte “le pazzignane” e che ritrae il neopentito da bambino, affiancato dai predecessori che hanno fondato e rilanciato le quotazioni del clan di famiglia. Gli uomini di casa, il fiore all’occhiello della famiglia da esibire con vanto ed orgoglio, ma all’indomani del pentimento di Tommaso, quel ritratto di famiglia è diventato scomodo ed ingombrante. In preda alla rabbia, alcune parenti hanno sfregiato il volto del piccolo Tommaso Schisa, reputato indegno di figurare in quella foto, attorniato da due veri uomini d’onore: “i pazzignani” Antonio Piscopo e suo figlio Luigi.
“Le pazzignane” hanno prima cercato in tutti i modi di smentire la notizia del pentimento del giovane Schisa e poi di indurlo a ritrattare, a suon di intimidazioni, non solo rivolte a lui, ma anche alla sua ex moglie. Già perchè nelle “pazzignane” è fortemente radicata la convinzione che quella decisione sia scaturita da lei, un dubbio che diventa certezza quando scoprono che la donna si frequenta con un altro uomo.
Il ruolo di stalker ricoperto da Fortuna Ercolano, cugina di Tommaso, trapela in tutta la sua ossessiva costanza dalle intercettazioni: setaccia i profili social di Elisa Esposito e del suo nuovo compagno e inoltre comunica a sua zia Gabriella di essere in contatto con una persona in grado di fornire le prove dell’infedeltà della donna. Secondo le informazioni ricevute dalla Ercolano, la moglie di Schisa stava intrattenendo una relazione extraconiugale con un certo Francesco, un uomo sposato, residente ad Acerra: è proprio quella notizia a dare il via al vortice di azioni minatorie e violente indirizzate alla coppia.
In questo frangente è proprio Fortuna Ercolano ad attivarsi per diramare messaggi agli organi di stampa, volti a diffondere la notizia che il pentimento di Schisa sia scaturito proprio dal tradimento della moglie. E’ la stessa Fortuna Ercolano a commentare sistematicamente e pressoché in tempo reale con insulti e frasi indicibili gli articoli che appaiono sui social network in cui è riportata la notizia del pentimento di suo cugino Tommaso. Una condotta che la Ercolano ha esternato in più circostanze, nel corso degli anni, tutte le volte che le malefatte delle “pazzignane” finivano sotto i riflettori. In sostanza, Fortuna Ercolano può definirsi “la responsabile della comunicazione” del clan di famiglia, tra le più attive sui social network. Proprio in quel periodo, in più di una circostanza, Fortuna Ercolano, accompagnata da altre parenti, si è recata presso il commissariato di polizia di Ponticelli per chiedere ai poliziotti di vietare alla direttrice di Napolitan.it, la giornalista Luciana Esposito, di pubblicare articoli in cui accendeva i riflettori sulle “pazzignane”.
Quello che Tommaso ha vissuto, per mano dei suoi familiari, è un banco di prova che ogni martire è chiamato a sostenere, un calvario lungo e sofferto. Rinnegato dai genitori che immediatamente prendono le distanze dal suo gesto ed interrompono ogni forma di comunicazione con lui, oltraggiato, insultato ed umiliato dal resto dei familiari, ancora arroccati nel Rione De Gasperi di Ponticelli, quel rione che un tempo fu dei Sarno e che sua madre con austero orgoglio, ignara di essere intercettata, definisce “il suo rione”.
I parenti temono le conseguenze di quel pentimento e per scongiurare il pericolo una vendetta trasversale o di un periodo di detenzione, scaturito per effetto delle dichiarazioni rese dal loro stesso sangue, compiono una serie di azioni efferate. Ad animare la mattanza non sono soltanto le parenti notoriamente contigue alla malavita, come Gabriella Onesto, ma anche le insospettabili, come Fortuna Ercolano ed Enza De Stefano, rispettivamente cugina e zia di Tommaso Schisa che seppure non siano contigue al clan di famiglia, in quel frangente, partecipano alle azioni finalizzate ad indurre il giovane a ritrattare. L’ira funesta delle pazzignane si scaglia principalmente contro l’ex compagna di Tommaso, rea di essere l’artefice del suo pentimento, proprio perchè ha iniziato a frequentare un altro uomo. Motivo per il quale anche il suo nuovo compagno finì nel mirino delle parenti di Schisa. Non solo insulti e minacce, ma anche azioni concrete: il pestaggio subito da lui, ma anche il tentativo di rapire suo figlio, fino all’occupazione della casa in cui Schisa viveva insieme all’ormai ex compagna nel rione 219 di Marigliano, dalla quale le donne portano via anche una serie di oggetti, come alcuni televisori. Un’azione che termina con il taglio dei cavi stendibiancheria per ufficializzare agli occhi degli altri abitanti del rione che “la donna del pentito” era stata punita ed allontanata dalla sua abitazione.
Dichiarano di essere i “padroni di Ponticelli” e di non essere “femmine normali” ma di appartenere alle famiglie camorristiche Contini, Rinaldi, Minichini e De Luca Bossa. “Ti meriti di finire dentro un pilastro di cemento”, “domani mattina ci vediamo tutti e ti ammazziamo”, sono solo alcune delle frasi inquietanti indirizzate dalle parenti di Schisa alla sua ex moglie e al suo nuovo compagno.
Al contempo, iniziano le impietose azioni di rappresaglia nei riguardi di Tommaso: la sua abitazione nel Rione De Gasperi viene selvaggiamente razziata dai cugini, figli di Antonella De Stefano, la sorella della madre. Un gesto plateale, voluto per umiliare il pentito e prendere pubblicamente le distanze dal suo gesto. Eppure, uno dei figli di Antonella De Stefano porta tatuato su un polso il nome di quel cugino che sostiene di aver rinnegato. Un dettaglio che ben spiega quanto sia stato forte il sentimento che legava i due cugini.
Mentre “le pazzignane” sono intente a dare libero sfogo alla loro collera, concentrandosi sull’ex moglie di Tommaso, in carcere si avvicendano ben altre dinamiche. Nel periodo in cui Tommaso era detenuto, Domenico Amitrano subentrò al suo posto nel controllo e nella gestione degli affari illeciti nel Rione De Gasperi, per espresso volere di Carmine Audino alias ‘o cinese e per questo il giovane Schisa iniziò a ricevere uno stipendio inferiore. In seguito alla condanna a dodici anni di detenzione incassata da Tommaso poco prima di optare per il pentimento, quando ‘o cinese fiuta nell’aria il sentore del possibile pericolo, opta per l’aumento della mesata, provvedendo ad incrementare il denaro nelle sue disponibilità durante la detenzione. Un gesto che insospettisce gli altri affiliati, in primis Michele Minichini, ‘o tigre, il fratello acquisito di Tommaso, l’amico inseparabile con il quale ha condiviso tutto, momenti di svago e reati, ma soprattutto un patto siglato nel 2015: se Schisa si fosse pentito, Minichini avrebbe ucciso sua sorella Rosa. Di contro, se si fosse pentito Minichini, sarebbe stato Schisa ad eliminare sua sorella Martina.
Sprezzante di quel giuramento che rischiava di mettere seriamente a repentaglio la vita di sua sorella, Tommaso Schisa matura la decisione di collaborare con la giustizia in un momento ben preciso: il 3 agosto del 2019, quando durante un controllo da parte della polizia penitenziaria viene sorpreso in possesso di un telefono cellulare del quale cerca di disfarsi gettandolo dalla finestra. Ciononostante, viene posto in isolamento. L’impossibilità di contattare Schisa, getta i parenti in un indomabile stato di fibrillazione, proprio perchè temevano che quell’evento fosse scaturito dalla sua decisione di collaborare. A manifestare particolare tribolazione è Gabriella Onesto, l’unica delle pazzignane che era riuscita a sventare l’arresto e la conseguente condanna all’ergastolo per l’omicidio Colonna-Cepparulo. Quando realizza che il suo presentimento è giusto, la Onesto non ha dubbi sul da farsi: deve precipitarsi dai vertici della cosca per metterli al corrente della situazione. Un atto di fedeltà necessario per scongiurare possibili vendette trasversali. Notti insonni, pianti inconsolabili, spostamenti di denaro, avvertimenti e raccomandazioni indirizzati alle persone che più hanno da perdere e che provvede a mettere cautamente in guardia, confidandogli la clamorosa notizia: questa la reazione a caldo della zia di Tommaso, nonchè persona più che addentrata nelle dinamiche malavitose.
Del resto, la frustrazione e la rabbia che scaturiscono da quella situazione che non può gestire e si vede costretta a subire, Gabriella Onesto la manifesta indirizzando una minaccia esplicita alla giornalista Luciana Esposito, rea di “sponsorizzare eccessivamente” la notizia del pentimento di Tommaso: “un mandato di arresto in più o in meno non mi fa niente, ma la soddisfazione di scrivere l’articolo del mio arresto non te la do”, scrive la Onesto alla direttrice di “Napolitan” sulla chat di messenger.
E’ Gabriella Onesto a comunicare a Luigia Cardillo, moglie di Alfredo Minichini, di diramare in carcere la notizia del pentimento di Tommaso, affinchè i fratelli Minichini possano adoperarsi per compiere qualsiasi azione, anche violenta, finalizzata ad indurre il giovane nipote a ritrattare. Per sua stessa ammissione, Gabriella Onesto avrebbe preferito vedere suo nipote Tommaso morto suicida in carcere, ma non pentito, perchè era a conoscenza di molte cose sul suo conto, tra cui “l’affare dei palazzi”, ovvero la gestione della compravendita degli alloggi in molti rioni di Ponticelli, oltre al business dell’impresa di pulizie. A rischiare non è solo lei: Gabriella Onesto, ignara di essere intercettata, confessa di essere in pena anche per Antonella De Stefano per più vent’anni a capo di una prolifera piazza di spaccio, insieme al marito e ai figli, pur non avendo trascorso mai neanche una notte in carcere.
In quel momento storico Tommaso Schisa è detenuto nel carcere di Secondigliano, lo stesso istituto penitenziario in cui sono reclusi i fratelli Alfredo e Michele Minichini ed è proprio quest’ultimo ad avvicinare Luigi Crisai, detto “Ginetto”, contiguo al clan De Micco, poi passato dalla parte dei clan alleati di Napoli est. Addetto alle pulizie nel carcere di Secondigliano, Ginetto avvicina facilmente Schisa e gli fa pervenire il messaggio di Michele Minichini: se avesse ritrattato, lui e la sua famiglia non avrebbero subito nessuna ritorsione. Tommaso finge di acconsentire, ma poi denuncia tempestivamente l’accaduto alla polizia penitenziaria. Motivo per il quale Schisa verrà immediatamente trasferito in un altro istituto.
Fioccano i verbali in cui Tommaso ricostruisce la sua militanza nel clan Minichini-Schisa-De Luca Bossa-Rinaldi riferendo delle modalità di organizzazione del clan, attribuendo ad ogni affiliato il ruolo assunto, ricostruendo le attività illecite e le azioni criminose intraprese, al pari delle alleanze intrecciate con gli altri clan. Sono trascorsi così tre anni, ricchi, ricchissimi di dichiarazioni, eventi, arresti, agguati e colpi di scena, ma Tommaso non si è mai voltato indietro, continua a tenere lo sguardo fisso verso il futuro e ciò che intravede oltre le sbarre, per la prima volta, è la luce che introduce un futuro sereno, disteso, migliore.
Le dichiarazioni rese dal giovane Schisa, unitamente a quelle di ben altri dieci collaboratori di giustizia, hanno concorso al compimento del blitz che lo scorso 28 novembre ha fatto scattare le manette per più di 60 persone contigue al clan del quale anche lui è stato un autorevole affiliato. A finire nei guai, anche e soprattutto i membri della sua famiglia, chiamati a rispondere davanti alla legge dei reati commessi per indurlo a ritrattare. Si aggrava la posizione di sua zia, Gabriella Onesto, nulla cambia per la madre già condannata all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio Colonna-Cepparulo, insieme a sua zia Vincenza Maione e a Michele Minichini. Finisce in carcere suo cugino Pasquale, il figlio maggiore di sua zia Antonella, ai domiciliari la zia Enza De Stefano e la cugina Fortuna Ercolano.
Gli arresti dei parenti riaprono quella ferita mai sanata, scaturita dal pentimento di Tommaso, perchè concretizzano la temuta minaccia con la quale hanno convissuto dal giorno in cui ha scelto di pentirsi e sui social dilagano video e frasi ingiuriose indirizzate al giovane collaboratore, così come comprova questo video pubblicato dalla cugina Consuela Maione, figlia di Vincenza Maione e nipote di Gabriella Onesto.
Anche all’indomani del blitz che lascia intravedere l’inizio della fine “le pazzignane” hanno prontamente azionato la macchina del fango: così com’è accaduto quando c’era da difendersi dall’insidia insita nelle dichiarazioni rese dai fratelli Sarno, malgrado la strategia adottata non abbia sortito effetto, in virtù degli ergastoli incassati dai membri della famiglia/clan, anche in questo frangente è in corso una potente campagna di delegittimazione volta screditare e minare la credibilità del collaboratore Tommaso Schisa.
Durante il processo per la strage del Sayonara, l’accusa lanciata ai Sarno era quella di aver simulato il pentimento per servirsi della magistratura per colpire gli affiliati di cui intendevano vendicarsi. Una teoria che però non teneva conto della presenza di altri collaboratori di giustizia, in primis quelli contigui al clan Aprea, che non avrebbero avuto alcun interesse ad appoggiare l’ipotetico piano di vendetta degli ex boss di Ponticelli con i quali erano entrati in rotta di collisione quando avevano appoggiato la scissione capeggiata da Antonio De Luca Bossa.
In questa circostanza, l’accusa mossa a Tommaso Schisa è quella di essersi pentito per vendicarsi di sua zia Antonella e dei suoi cugini, in virtù di alcuni dissidi di natura economica che sarebbero sorti durante il periodo in cui era in carcere. Nella fattispecie, la zia si sarebbe rifiutata di provvedere al suo mantenimento. Tuttavia, nel corso degli anni, Tommaso ha cercato più volte di convincere proprio quel nucleo familiare ad accettare il programma di protezione, essendo particolarmente legato al secondo dei figli di sua zia Antonella. In più di una circostanza, in particolare all’indomani di atti minatori e vicende concitate che vedevano protagonista proprio il suo cugino prediletto, il programma di protezione ha bussato alla porta dell’abitazione dell’isolato 10 del rione De Gasperi per rinnovargli l’invito ad allontanarsi da Ponticelli ed iniziare una nuova vita lontano dai regolamenti di conti della camorra. Non a caso, è proprio il cugino più legato a Tommaso uno dei promotori più accaniti della campagna d’odio che sta andando in scena sui social network.
Inoltre, le dichiarazioni rese alla magistratura da Schisa sono perfettamente in linea con quelle rese dagli altri collaboratori e trovano pieno riscontro nelle conversazioni estrapolate dalle intercettazioni ambientali e telefoniche. Dati di fatti oggettivi che non lasciano dubbi circa l’attendibilità del collaboratore.
I verbali che contengono le dichiarazioni firmate da Tommaso rappresentano la prova granitica che è possibile sottrarsi alla morsa autodistruttiva della camorra.
La sua storia, il suo coraggio devono fungere da esempio per i ragazzi di Ponticelli: la sua famiglia avrebbe preferito vederlo morto ma camorrista, lui ha scelto di dissociarsi per vivere da uomo libero.
Una scelta supportata e condivisa da sua sorella Rosa, l’unico membro della famiglia che ha accettato di entrare nel programma di protezione riservato ai parenti dei collaboratori, insieme al suo fidanzato Vincenzo e alla loro bambina, nata da poche settimane quando Tommaso aveva avviato quel nuovo percorso di vita.
I familiari rimasti a Ponticelli hanno voltato le spalle anche a loro, imputandogli l’imperdonabile colpa di aver agevolato il pentimento di Tommaso appoggiandone la decisione accettando il programma di protezione. Anche Rosa, giovane figlia di due genitori ergastolani, diventata mamma poco più che ventenne e abbandonata dalla sua famiglia è stata chiamata a sostenere una sfida coraggiosa decidendo di seguire il fratello in quel nuovo cammino, ma la sua è un’altra storia, ugualmente ricca di coraggio e libertà e merita di essere narrata distintamente da quella di Tommaso.