La guerra senza fine che tuttora tiene banco a Ponticelli tra i De Luca Bossa e i De Micco ha raggiunto il punto di non ritorno in un momento ben preciso: quando i De Micco uccisero Antonio Minichini, il 19enne figlio del boss Ciro Minichini detto “Cirillino”, braccio destro di Tonino ‘o sicco e di Anna De Luca Bossa, la sorella di quest’ultimo.
Minichini fu freddato dai killer mentre si trovava in compagnia di Gennaro Castaldi, contiguo al clan D’Amico, in guerra con i De Micco per il controllo dei traffici illeciti, all’indomani del declino dell’era dei Sarno.
il 19enne figlio di due temprate famiglie d’onore dell’ala est fu assassinato perchè si trovava in compagnia della reale vittima dell’agguato, Castaldi. I sicari attesero che quest’ultimo rincasasse per entrare in azione e non ridimensionarono i loro piani, malgrado fosse in compagnia dell’amico Antonio MInichiini.
A far luce in maniera più esaustiva sull’omicidio Castaldi-Minichini ci pensa il collaboratore di giustizia Domenico Esposito, ex gregario dei “Bodo”, che partecipò all’agguato.
E’ proprio il collaboratore di giustizia a rivelare il retroscena che si celava dietro il duplice omicidio Castaldi- Minichini: la rottura dell’accordo tra Giuseppe D’Amico da un lato e Michele Cuccaro e Marco De Micco, che, allora, erano uniti da un’alleanza che congiungeva i quartieri Ponticelli e Barra, sulla divisione dei proventi per gli affari illeciti, droga ed estorsioni.
Un accordo che prevedeva la spartizione al 50% sui soldi ricavati soltanto al parco “Conocal”, – roccaforte dei D’Amico – ma ben presto “Peppino Fraulella” si mostrò scontento perché aspirava alla stessa percentuale su tutto il quartiere. Fino a quando, dopo aver chiesto inutilmente di più, la situazione degenerò.
Diversi collaboratori di giustizia hanno fornito elementi utili a ricostruire dinamica, mandanti ed esecutori dell’omicidio di Gennaro Castaldi e Antonio Minichini, ma, in prima battuta, il contributo più valido venne da Domenico Esposito detto “’o cinese”, ex gregario dei De Micco che il 22 aprile 2013 mette a verbale un dettaglio particolarmente rilevante, in virtù di quello che attualmente sta accadendo a Ponticelli: «Era un periodo in cui cercavano di prendere Christian Marfella – figlio di Giuseppe Marfella e Teresa De Luca Bossa – per ucciderlo e anche le persone che camminavano con lui, tra le quali il figlio di “Cirillino” Minichini. (Probabilmente Esposito si riferisce a Michele Minichini, fratellastro di Antonio, e contiguo al clan di famiglia) Dopo vari tentativi venimmo a sapere che Genny Castaldi aveva la ritirata a casa alle 8 di sera. Partimmo con una Atos onesta, che era della persona cui mandavo i messaggi per la droga, ma lui non ne sapeva niente. Andammo sotto casa di Castaldi e abbiamo aspettato un quarto d’ora, massimo venti minuti. Eravamo io, Gennaro Volpicelli e Salvatore De Micco. Nessuno dei tre fuma né ha fumato durante l’attesa. Quando vedemmo arrivare l’SH bianco con in sella Antonio Minichini e Gennaro Castaldi, Salvatore De Micco e Gennaro Volpicelli spararono. Il primo fu De Micco a Minichini che guidava. Quando il motorino cadde, De Micco sparò anche contro Gennaro Castaldi fino a che la pistola non si inceppò. Allora sparò anche Volpicelli, contro Castaldi che aveva accennato alla fuga. Io ero armato, ma non sparai, tanto che De Micco mi rimproverò. I due che fecero fuoco avevano due 9×21, io un 357 di quelli che ho fatto sequestrare oggi».
Sul banco degli imputati per l’omicidio Minichini-Castaldi, oltre al ras Salvatore De Micco ed a Gennaro Volpicelli, anche il collaboratore di giustizia Domenico Esposito che, con le sue dichiarazioni ha svelato i retroscena dell’agguato. I tre rispondono dell’accusa di duplice omicidio con l’aggravante camorristica perché avrebbero agito per favorire il proprio clan d’appartenenza.
Tuttavia, nel corso del processo, si fa spazio un retroscena che fa vacillare clamorosamente l’attendibilità delle dichiarazioni di Domenico Esposito.
Una lettera di scuse indirizzata al boss Marco de Micco, nella quale “si pente di essersi pentito” e spiega che quella scelta è maturata perché “gli avevano messo i vermicelli in testa”, ovvero, Roberto Boccardi – ex affiliato al clan De Micco, poi passato tra le fila dei De Luca Bossa – gli aveva fatto credere che volessero liberarsi di lui. Quindi, vedendo la sua vita in pericolo, scelse di collaborare con la giustizia per beneficiare, così, della protezione dello Stato.
Una lettera che Marco De Micco aveva ricevuto all’incirca un anno dopo il duplice omicidio dei due giovani, mentre era detenuto agli arresti domiciliari in un comune del milanese.
Domenico Esposito nel ricevere un decreto di citazione per un’udienza, scoprì che Marco De Micco stava scontando i domiciliari in un comune non molto distante da quello in cui viveva sotto protezione. Preoccupato ed impaurito dall’ipotesi che “Bodo” potesse sapere dove si trovasse e quindi assoldare un killer per ucciderlo, decise di inviargli quella lettera, pregna di parole di scuse e pentimento per aver tradito il clan, in cui gli chiedeva espressamente di bruciarla dopo averla letta.
Una mente cinica e lungimirante come quella di Marco De Micco non poteva fare altro che sfruttare la ghiotta occasione per rimarcare la sua fama di giovane ed astuto boss, tirando fuori quella missiva in fase processuale: proprio nel corso del processo a carico dei tre affiliati al clan De Micco accusati dell’omicidio di Minichini e Castaldi, i legali di “Bodo” introducono il clamoroso colpo di scena, che sorprende, in primis, lo stesso “cinese”, che non aveva proferito parola agli inquirenti in merito a quella lettera e che si è visto sbugiardare inaspettatamente.
Un fallo che ha consentito alla difesa dei De Micco di contestare l’attendibilità delle dichiarazioni di Domenico Esposito, asserendo che quella missiva rappresenta la prova dell’odio che l’uomo nutre verso i De Micco e che lo avrebbe portato ad accusare il clan di Bodo di reati mai commessi.
Motivo per il quale Salvatore detto Savio, fratello del boss Marco, e Gennaro Volpicelli, fidato killer della cosca, si sono visti abbonare l’ergastolo al quale erano stati condannati all’ergastolo in primo grado per l’omicidio di Minichini-Castaldi.
La motivazione della sentenza è da ricondurre alle incongruenze emerse dalle dichiarazioni rese da due collaboratori di giustizia, Domenico Esposito e Gaetano Lauria, i principali accusatori delle due figure di spicco del clan De Micco.
Un verdetto festeggiato con uni spettacolo pirotecnico che non è passato inosservato, soprattutto perchè poche ore dopo un altro giovane nelle cui vene scorreva il sangue dei De Luca Bossa fu barbaramente trucidato: Carmine D’Onofrio.