Quella che andò in scena nel 2015 fu un’estate particolarmente rovente per la città di Napoli e non solo per le temperature torride, ma anche e soprattutto per l’escalation di violenza che si registrò tra i vicoli del centro storico. Complice la nascita di un nuovo clan, costituito da giovanissimi, “la paranza dei bambini di Forcella”, questa l’etichetta che prontamente la stampa affrancò a quel gruppo di ragazzi che sfidò le vecchie famiglie a suon di “stese” e agguati.
Ideatore, promotore, fondatore ed ispiratore di quel modello camorristico diventato un vero e proprio brand, il giovane Emanuele Sibillo che ha cullato e pianificato il sogno di fondare un clan tutto suo, mentre era detenuto nel carcere minorile di Nisida. Un desiderio scaturito da un’ambizione ben precisa: scalzare i Mazzarella da Forcella.
Per questo motivo ha guadagnato l’opinabile fama del “Robin Hood di Forcella” per sottolineare “il nobile” intento di allontanare dal suo quartiere l’ombra egemone di un clan storicamente radicato a San Giovanni a Teduccio, quindi in un’altra zona della città e non solo per ragioni strettamente correlate alla pertinenza territoriale. Emanuele Sibillo mira a lanciare il guanto di sfida ai vecchi capi, ai clan datati e detentori di un modello camorristico che stenta a parlare il linguaggio dei giovani.
In questo clima, un ragazzo qualunque che mentre era in carcere si era anche cimentato nella pratica giornalistica, una volta tornato a piede libero, mette a punto un modello camorristico che tuttora ispira i giovani che mirano ad emularlo.
Barbe folte, tatuaggi, abiti scuri, ma griffati: uno stile adottato anche dai giovani estranei alle dinamiche camorristiche e che fa di Emanuele Sibillo l’influencer più autorevole della camorra contemporanea, nonostante sia morto all’alba dei 20 anni, il 2 luglio del 2015, condannando due bambini a crescere senza padre.
Paradossalmente, proprio quella morte violenta, scaturita nel funesto tentativo di consacrare la sua ascesa camorristica, ha concorso a trasformare Emanuele Sibillo in un mito, o meglio, un falso mito, uno dei tanti distorti dalla temprata abilità della camorra di convertire “il brutto in bello”. E viceversa.
Emanuele Sibillo muore da latitante. Poche settimane prima era riuscito a sottrarsi alle manette e da quel momento si era reso irreperibile. Il leader della paranza dei bambini ha pagato con la vita una madornale leggerezza: lasciare il bunker in cui era rifugiato per compiere una “stesa” in via Oronzio Costa, fortino dei rivali del clan Buonerba. Vittima del personaggio che lui stesso aveva costruito, Sibillo è andato incontro alla morte per appagare l’esigenza di mostrarsi in pubblico per intimorire ai rivali, ma anche per rincuorare i suoi seguaci che apparivano destabilizzati dalla sua protratta assenza.
Raggiunto da un proiettile alla schiena, Sibillo viene letteralmente scaraventato nel pronto soccorso dell’ospedale Loreto Mare dagli amici e sodali che lo accompagnarono in quell’ultima azione criminale. Una scena ripresa dalle videocamere dell’ospedale e diventata ormai virale.
Malgrado la morte prematura e violenta, malgrado il severo epilogo contro il quale si è schiantato il sogno criminale di Emanuele Sibillo, le sue gesta, le sue immagini e soprattutto il suo marchio distintivo, seguitano a mietere proseliti e consensi.
“ES17”: una sigla che può definirsi un vero e proprio brand enfatizzato dalle fiamme, perchè la “S” di Sibillo è la diciassettesima lettera dell’alfabeto, ma nella smorfia napoletana, quel numero è anche sinonimo di sciagura.
“La sfiga che brucia”: questa l’immagine iconica nella quale Emanuele Sibillo s’identificava. Un mix di numeri, lettere e suggestioni dal quale trapela la paura della morte e la piena consapevolezza del destino che, con cognizione di causa, aveva scelto di abbracciare.
L’utilizzo di codici composti da sigle e numeri è uno dei tratti distintivi delle gang sudamericane, al pari dello sfoggio di tatuaggi che non di rado assumono un significato ben preciso, riconducibile alla sfera criminale.
Emanuele Sibillo è anche un guerrigliero islamico, non solo nell’aspetto estetico. Proprio come gli integralisti islamici, pronti a morire per servire un ideale, Emanuele Sibillo sacrifica la sua vita per idolatrare il credo camorristico. Non basta gettare la sfiga in pasto alle fiamme per sfuggire allo spietato destino che la camorra imprime nelle vite dei suoi adepti più convinti: questo, oggi, dovrebbe ricordare ai suoi eredi quel simbolo diventato iconico e che, invece, agli occhi dei guerriglieri dell’Isis di casa nostra, risuona come un urlo di battaglia da adottare, rivendicare e rilanciare con convinta forza e fermezza.
Il brand camorristico lanciato da Sibillo è frutto della spettacolarizzazione delle caratteristiche più estreme e vistose di due correnti ideologiche distinte e dissonanti: i narcos sudamericani, ma anche i guerriglieri islamici. A fungere da filo conduttore: la violenza, l’efferatezza, il coraggio estremo che azzera il raziocinio ed enfatizza il delirio d’onnipotenza.
E’ uno scenario inquietante quello che trapela dal bilancio degli anni trascorsi dal 2 luglio 2015, dalla sera in cui ES17 è andato incontro all’estremo sacrificio, pur di perseguire il suo disegno criminale. Tanti, tantissimi giovani hanno emulato le sue gesta e le sue immagini, le sue parole, quel simbolo seguitano a mietere proseliti e sono tra i contenuti più virali pubblicati sui social network.
Una figura tuttora venerata ed osannata che continua a vivere in “ES17”: una sigla che identifica un vero e proprio modello camorristico, una mentalità malavitosa capace di educare ed indottrinare molte altre giovani “Paranze” che sprezzanti della morte auspicano di poter ambire a quella medesima forma di consacrazione. Così come dimostrano i tantissimi video pubblicati sui social che ritraggono giovani che emulano le gesta di Sibillo: dalla barba ai tatuaggi, ripetendo come un mantra le frasi del documentario di Sky che ricostruisce la vita dell’ideatore della “paranza dei bambini di Forcella”.
#ES17 è uno degli hashtag più popolari che accompagnano video che inneggiano alla malavita, all’omertà e al rispetto delle regole dettate dal codice d’onore della camorra.
Emulato ed osannato sui social, così come nella vita reale, la figura di Emanuele Sibillo, nel corso di questi anni, è andata incontro ad un autentico processo di beatificazione.
La cappella votiva erta in via Santissimi Filippo e Giacomo, all’interno dell’androne del palazzo in cui vive la famiglia Sibillo, soprannominato “il palazzo della buonanima”, con l’immagine della Madonna dell’Arco a troneggiare sul sipario allestito in memoria del giovane boss defunto, con una struttura in ferro e vetro a protezione della nicchia, chiusa con tanto di lucchetto, era diventato un vero e proprio luogo di culto, presso il quale affiliati e residenti in zona si recavano per omaggiare la memoria del boss assassinato.
Una figura venerata ed osannata come un Santo, al quale tutti dovevano tributare rispetto. Dalle indagini che hanno portato all’importante blitz che ha decapitato il clan Sibillo, emergono dettagli macabri ed inquietanti secondo i quali un commerciante vittima di estorsione sarebbe stato trascinato davanti alla cappella votiva di ES17 e costretto a inginocchiarsi per riconoscere il potere egemone del clan fondato dallo stesso Sibillo.
Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, quell’altare non era stato allestito con l’esclusivo intento di commemorare un defunto, ma per perseguire ben altri scopi, in primis, quello di consacrare l’egemonia del clan Sibillo.
Per questa ragione, l’altarino è stato rimosso dai Carabinieri del Comando provinciale di Napoli supportati dai Vigili del Fuoco.
Il busto di ES17 è esposto al Museo criminologico di Roma, mentre il suo falso mito continua a riecheggiare con veemenza nell’immaginario dei suoi numerosissimi followers.