Il 23 marzo del 1997, il corpo senza vita di Agata Azzolina viene ritrovato nel suo appartamento a Niscemi, comune siciliano in provincia di Caltanissetta.
La 43enne, prima di impiccarsi, ha lasciato un biglietto alla figlia: “Perdonami Chiara, ma non ce la faccio più…lascia questo paese maledetto…”.
Un suicidio che viene definito dai media un delitto di mafia e che giunge al culmine di una serie di eventi violenti. Un suicidio che sancisce l’epilogo di una tristissima vicenda.
Suo marito Salvatore e suo figlio Mimmo pochi mesi prima, il 16 ottobre del 1996, erano stati uccisi davanti ai suoi occhi. Seviziati con un coltello e giustiziati con un colpo di pistola in un raid “mascherato” in un primo momento come un tentativo di rapina. I due assassini, due fratelli, Maurizio e Salvatore Infuso, furono ritrovati cinque ore dopo in un casolare su indicazione di Agata: in una borsa, i due avevano ancora la pistola.
Un evento traumatico che trascina la vita di Agata in un baratro di dolore, ma anche di paura.
Il monito minaccioso della malavita la raggiunse fin dentro al cimitero, mentre pregava sulla tomba dei suoi cari le fu detto che “non sarebbe finita lì”. Un altro giorno i balordi entrarono nel suo negozio. Gridarono: “Devi pagare…devi pagare…”. Agata aveva denunciato quelle estorsioni che erano costate la vita a suo marito e a suo figlio e si era spinta ben oltre, raccontando ad un commissario di polizia anche di intrecci ed affari in cui erano invischiati i malavitosi che la stavano perseguitando. Le indagini erano state avviate, ma Agata voleva giustizia subito, voleva che i mandanti dell’ omicidio di suo marito e di suo figlio finissero in carcere.
La sera di San Silvestro fu bastonata da un paio di ragazzi che fecero nuovamente irruzione nella sua pellicceria. Pochi giorni dopo le giurarono che avrebbe ricevuto un’ altra “visita”. E arrivò pure una lettera anonima: “Uccideremo anche tua figlia Chiara”. Sotto casa sua da molte settimane vigilavano due militari dei Vespri Siciliani. Una semplice “tutela”, la Prefettura di Caltanissetta non poteva assegnare una vera e propria scorta ad Agata “per mancanza di personale”. Poi, il 21 marzo, c’ è stato a Niscemi “il giorno del ricordo” in memoria delle vittime di mafia, un popolo riunito in un luogo-simbolo per onorare i morti, tutti i morti. Seppure invitata a presenziare alla manifestazione, Agata preferisce non partecipare.
In quella piazza i nomi del marito e del figlio di Agata, non furono pronunciati tra quelli delle vittime innocenti della criminalità. Un fatto che non passò inosservato e che diede adito a pettegolezzi ed illazioni che altro non fecero che concorrere ad isolare ancor più la donna, già in preda ad un dolore sempre più sconfortante. In realtà, i nomi di Maurizio e Salvatore Infuso non furono inseriti nell’elenco perchè troppo recenti.
A trovare il corpo esanime di Agata è sua figlia Chiara, 21enne studentessa universitaria. L’ha trovata morta in cucina, appesa con una corda di nylon alle travi di legno del soffitto, in quella casa, poco distante dal commissariato, costruita dal marito quando prima di diventare commerciante di gioielli e pellicce, era a capo di una piccola impresa edile. Il tavolo era coperto da una ventina di fogli di giornale, tutti gli articoli che la stampa le aveva dedicato: l’ uccisione del marito e del figlio, l’ aggressione di San Silvestro, le minacce di gennaio. Tra quei fogli un’ intervista concessa un paio di mesi fa a La Sicilia: “Non mi piegherò mai”. In un angolo del tavolo, c’ era anche quel biglietto destinato alla figlia in cui la donna le ha spiegato le motivazioni che l’hanno spinta a compiere l’estremo gesto.
Agata è morta strangolata dalle richieste estorsive di una banda che tiene in ostaggio i commercianti della zona.
Non a caso, il contributo più esaustivo che ha consentito alla magistratura di infliggere un duro colpo alle organizzazioni mafiose, nel corso degli anni, è stato fornito dalle donne. Uno scenario che ha imposto alle organizzazioni criminali di studiare una nuova e ancor più subdola strategia per garantire il rispetto delle rigide ed intransigenti regole impartite mediante il “codice d’onore”. E’ così che nasce un altro strumento di morte, simbolicamente addirittura più forte dell’omicidio perché “autoinflitto”, “autoindotto” che è il suicidio. Così come tristemente comprova la storia di Agata Azzolina.