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Camorra Ponticelli: tra gli arrestati il figlio di “Peppe scè scè”, fedelissimo di Tonino ‘o sicco, ucciso dai Sarno

Luciana Esposito di Luciana Esposito
5 Aprile, 2022
in Cronaca, In evidenza
0
Giorni di paura ed apprensione a Ponticelli, non si teme solo l’agguato, ma anche il pentimento di una donna-boss
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lotto-oTra gli 11 destinatari del provvedimento odierno che ha fatto scattare le manette per gli affiliati ai clan Minichini-Casella-De Luca Bossa e De Martino che nei mesi precedenti hanno animato la guerra esplosa per il controllo dei traffici illeciti a Ponticelli, spicca il nome di un 27enne, figlio di una figura di spicco della malavita locale.

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Giovanni Mignano, classe 1994, aveva solo 8 anni quando suo padre, Giuseppe Mignano detto “Peppe scè scè” fu ucciso, il 26 ottobre del 2002, per volere del clan Sarno. Mignano fu ucciso nella sua abitazione, nel Lotto O di Ponticelli, fortino del clan De Luca Bossa, la cosca che Mignano ha servito fino alla morte. Prima fedelissimo del clan fondato dai fratelli Ciro, Vincenzo, Giuseppe, Pasquale e Luciano Sarno, con base operativa nel Rione De Gasperi di Ponticelli, poi passato dalla parte di Antonio De Luca Bossa, il sanguinario Tonino ‘o sicco. Un tradimento che Mignano ha pagato con la vita.

Dopo un primo periodo trascorso a farsi le ossa come killer del clan, guadagnandosi la fama di “macellaio della camorra” per l’efferatezza che contraddistingueva i suoi delitti, Tonino ‘o sicco decise di rinnegare i Sarno e fondare un sodalizio camorristico autonomo, tentando di scalzare l’egemonia della cosca che aveva concorso a consacrare con i suoi delitti.

Antonio De Luca Bossa intendeva distruggere i Sarno mettendo la firma su un attentato in grande stile.

Emulando il modus operandi della mafia corleonese, Tonino ‘o sicco mise a segno il primo attentato stragista con autobomba in Campania, posizionando un ordigno nel ruotino di scorta della Lancia Delta sulla quale era solito viaggiare il boss Vincenzo Sarno, quando il suo autista, il nipote Luigi Amitrano, tutte le domeniche, lo accompagnava al commissariato per adempiere all’onere dell’obbligo di firma.

Il 24 aprile del 1998, però, qualcosa andò storto e l’ordigno esplose anzitempo, uccidendo soltanto il 26enne nipote dei boss di Ponticelli, mentre rincasava al termine di una giornata trascorsa all’ospedale Santobono di Napoli, dove sua figlia era ricoverata. Gli emissari del clan De Luca Bossa entrarono in azione per piazzare la bomba proprio mentre l’auto era in sosta nel parcheggio dell’ospedale.

Una morte violenta, quella del giovane Luigi Amitrano. Gli inquirenti fecero fatica ad appurare che i resti di quel corpo appartenessero ad un’unica persona, per scongiurare il coinvolgimento di un’altra vittima.

Se Tonino ‘o sicco fu arrestato e condannato all’ergastolo per quell’omicidio, in quanto mandante, Giuseppe Mignano fu condannato a morte dai fratelli Sarno, in quanto ritenuto l’esecutore materiale.

Il boss Antonio De Luca Bossa si fidava ciecamente di “Peppe scè sce”, tant’è vero che quando fu arrestato, durante il suo periodo di detenzione, continuò ad impartire direttive e a manovrare le redini del clan attraverso il suo fedelissimo affiliato ed autore dell’attentato. Mignano fece le veci di Tonino ‘o sicco fino alla sua uccisione.  La morte di Peppe scè scè, voluta dai fratelli Sarno, fu ottenuta dal boss del vicino comune di Cercola, Gianfranco Ponticelli.

Una morte ordinata dai vertici della cosca del Rione De Gasperi per un duplice motivo: vendicare la morte di Luigi Amitrano e punire il tradimento di Mignano che rinnegò i Sarno per passare dalla parte dei De Luca Bossa. La morte di Mignano, infatti, venne ordinata contestualmente a quella di altri ex affiliati che pagarono con la vita la scelta di rinnegare il clan di origine per seguire Tonino ‘o sicco, offrendogli appoggio nella scalata al potere contro gli i Sarno.

Sono stati proprio i fratelli Sarno e le figure simbolo del clan, una volta passati dalla parte dello Stato, a ricostruire queste e molte altre dinamiche legate ai fatti di sangue che si sono avvicendati negli anni in cui la cosca dominava una grossa fetta della periferia orientale di Napoli.

Quando Mignano fu ucciso, nella sua abitazione, i killer lasciarono sul cadavere alcune banconote in segno di disprezzo. 

Un delitto eclatante che pesò come un macigno sugli equilibri camorristici dell’epoca. Il clan De Luca Bossa, dopo l’omicidio di Giuseppe Mignano, non riuscì più a ricomporsi per tentare di insidiare l’egemonia dei Sarno che di lì a poco opteranno per l’autodistruzione, scegliendo di collaborare con la giustizia.

Una vita segnata da un episodio eclatante, quella di Giovanni Mignano, quando era ancora un bambino e che quando è cresciuto ha manifestato la volontà di ricalcare le orme paterne. 

In passato, è approdato più volte alla corte del “cinese”, al secolo Francesco Audino, figura di primo ordine della malavita locale, chiedendogli di lavorare per lui. Una possibilità che il cinese gli ha sempre negato, sperando che bastasse a tenerlo lontano dalla malavita.

Poi il vento è cambiato, i de Luca Bossa necessitavano di infoltire la loro compagine e hanno avviato la campagna di scouting, partendo proprio dai giovani del Lotto O che scalpitavano per guadagnare un posto nel clan del rione, dove il mito di Tonino ‘o sicco seguita ancora a mietere consensi e proseliti, malgrado i 20 anni di reclusione già incassati.

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