Quella che attualmente troneggia su Ponticelli è una camorra disposta a tutto, perfino a rinnegare un passato intriso di dolore, lacrime e sangue, pur di sedare la brama di potere covata per anni, in silenzio e subendo le angherie dei clan rivali: si sintetizza così l’alleanza tra i De Luca Bossa del Lotto O e gli Schisa del Rione De Gasperi, meglio conosciuti con il nomignolo di “Pazzignani”.
Un sodalizio che oggi consente ad entrambe le compagini di risalire la china e troneggiare su quel quartiere che, per anni, li ha visti ai margini della scena camorristica ponticellese, costretti a subire la furia egemone del clan De Micco, in particolare.
Una ribalta, quella del clan Schisa, conquistata grazie alla nascita di una serie di alleanze strategiche che non vede coinvolti solo i vecchi clan di Ponticelli, ma anche quelli di Barra e San Giovanni a Teduccio. Un sodalizio suggellato con l’omicidio del boss dei Barbudos Raffaele Cepparulo e macchiatosi del sangue dell’innocente Ciro Colonna.
Soprannominato “’o sicco”, in virtù della corporatura esile, in netta contrapposizione con la sua indole di malavitoso violento e senza scrupoli, Antonio De Luca Bossa aveva pianificato un attentato in grande stile per disfarsi di uno dei pezzi da 90 dei Sarno, il clan che in quegli anni dominava incontrastato la scena camorristica ponticellese, riuscendo ad imporsi ben oltre i confini di Ponticelli e dell’entroterra vesuviano, grazie all’alleanza con i Misso e i Mazzarella, autorevoli clan del centro storico di Napoli.
Nel 1998, sprezzante del timore reverenziale che “il mostro a tre teste” procreato da quell’alleanza imponeva agli interpreti della malavita napoletana, “‘o sicco” decide di “fare il botto” in stile mafia corleonese.
L’obiettivo dell’agguato doveva essere il boss Vincenzo Sarno, attirato in un tranello, invitato a partecipare ad una riunione con i De Luca Bossa. L’autobomba fu confezionata a Giugliano una settimana prima dell’attentato ed inserita in un ruotino di scorta, poi nascosto in una Lancia Delta di proprietà dei Sarno. L’innesco era radiocomandato, doveva esplodere quando Vincenzo Sarno, come ogni domenica, si faceva accompagnare dal nipote Luigi Amitrano a firmare, perché era sottoposto alla sorveglianza speciale.
Tuttavia, qualcosa va storto e la bomba esplode la sera del sabato prima, il 25 aprile del 1998, mentre Amitrano è di ritrono dall’ospedale Santobono di Napoli, dove era ricoverata sua figlia. Gli inquirenti ipotizzano che l’ordigno sia esploso anzitempo per effetto della pressione derivante dall’irregolarità del manto stradale.
Il 25 aprile del 1998, Amitrano esce di casa alle 20.30, in compagnia di suo cugino, Domenico Amitrano. Pochi minuti dopo, i due vengono fermati da una pattuglia della polizia. Tuttavia, gli agenti non trovano nulla a bordo della sedici valvole blindata. Amitrano si allontana dal posto di blocco e si fionda nel reparto di pediatria è ricoverata dal giorno precedente sua figlia Rita, di 4 anni.
Amitrano lascerà l’ospedale intorno alle 23: una tempistica calcolata alla perfezione dai killer che entrano in azione nel parcheggio, forzano il portabagagli e posizionano l’ordigno telecomandato all’interno di una ruota di scorta, intorno alle 21.
L’auto blindata non basta: Amitrano muore sul colpo, carbonizzato nell’incendio, quando l’ordigno esplode intorno alle 23.30. Non resta traccia dell’ordigno né dell’esplosivo.
La morte di Luigi Amitrano, 25enne luogotenente della camorra di Napoli Est, è un duro colpo al cuore per “i Pazzignani”, ma ancor più per il clan Sarno, tant’è vero che l’ex boss Giuseppe Sarno, nel 2010, nel corso della deposizione rilasciata in veste di collaboratore di giustizia, non è riuscito a trattenere la commozione quando sentì nominare suo nipote.
Una carriera in ascesa nel traffico di armi e stupefacenti al servizio del fratello di suo zio, il boss Ciro Sarno – a sua volta fedelissimo del clan Mazzarella – Amitrano morì a mezzo chilometro da casa: l’esplosione viene vissuta in diretta dagli stessi familiari che, oggi, sembrano aver dimenticato quel boato, alleandosi con il clan che decretò quella morte.
Un agguato per il quale Tonino ‘o sicco è stato condannato all’ergastolo in via definitiva, mentre i congiunti di Amitrano ancora in odore di camorra hanno clamorosamente applicato “lo sconto di pena”, tornando a stringersi la mano e a parlare di affari con la cosca del Lotto O, attualmente capitanata dal fratello di Antonio, Giuseppe De Luca Bossa.
E non è tutto. Emergono nuovi dettagli in relazione alle circostanze in cui è nata l’alleanza tra i due clan di Ponticelli, un tempo acerrimi rivali.
Per conto del clan dei “pazzignani”, a stringere la mano a Giuseppe De Luca Bossa, attuale reggente del clan del Lotto O di Ponticelli, è stato Domenico Amitrano, cugino di Luigi Amitrano, per giunta scampato miracolosamente alla morte, perchè, quella sera, nell’auto fatta saltare in aria da Tonino ‘o sicco, doveva esserci seduto anche lui.
Quella sera, infatti, diversi parenti erano accorsi all’ospedale Santobono, non appena si ebbe notizia del ricovero della figlia di Amitrano, tra questi suo cugino Domenico che doveva rincasare insieme a Luigi, andando così inconsapevolmente incontro allo stesso destino. In effetti, in quella circostanza, fu una fortuita casualità a salvargli la vita: Domenico Amitrano, infatti, lasciò l’ospedale insieme a Pasquale Bevilacqua, dando a suo cugino Luigi la possibilità di trattenersi ancora al capezzale di sua figlia.
Assai suggestivo è anche l’iter giudiziario che ha segnato la storia di Domenico Amitrano: gli inquirenti lo indagano a lungo per l‘omicidio di Pasquale Palermo, pregiudicato 45enne, affiliato ai Sarno, ucciso per un’epurazione interna allo stesso clan, giustiziato in Piazza Aprea a Ponticelli, ai piedi della Basilica di Santa Maria della Neve, intorno alle 12.30 del 7 febbraio 2009.
Riverso su un fianco nell’estremo tentativo di fuga, con le braccia e le mani allungate sul sedile di guida, cinque proiettili conficcati nella schiena e uno nella mandibola, con vistose ferite provocate dai proiettili fuoriusciti dal torace e dal mento: lo hanno trovato così gli inquirenti, a bordo dell’Opel Corsa nera sulla quale viaggiava, seduto sul sedile anteriore lato passeggero, quando i sicari si sono affiancati all’automobile per giustiziarlo. Soprannominato «Fischitiello», per il ruolo di vedetta svolto da ragazzino, Palermo era un collezionista di detenzioni e di scarcerazioni. Nel 2001 fu condannato a sette anni di reclusione in un processo che riguardava boss e gregari del suo clan. Reati gravi. Estorsioni, armi e droga. Scarcerato pochi mesi prima dell’agguato, Palermo era sottoposto al regime di libertà vigilata con obbligo di firma presso il commissariato di Ponticelli.
Seppure anche gli inquirenti fossero certi che i sicari entrati in azione a bordo di uno scooter per uccidere Pasquale Palermo fossero Domenico Amitrano e Vincenzo Cece, solo quest’ultimo venne menzionato dai collaboratori di giustizia e, di fatto, condannato. I pentiti avrebbero “risparmiato ” Domenico Amitrano per espressa volontà di Vincenzo Sarno.
Il boss della cosca di Ponticelli, decise di “salvare” Amitrano da una condanna pesante, non menzionandolo in riferimento all’omicidio di Pasquale Palermo e ordinando agli altri collaboratori di giustizia della cosca del Rione De Gasperi di fare lo stesso per un motivo ben preciso: “graziare” Domenico Amitrano sperando che, una volta tornato in libertà, dopo aver scontato una pena per reati minori, potesse intraprendere una strada sicuramente diversa da quella che l’ha portato ad allearsi con la cosca del Lotto O di Ponticelli.
Vincenzo Sarno, probabilmente, sperava anche in una vendetta utile a sanare la ferita generata dalla morte violenta di Luigi Amitrano. Di certo, non sognava un’alleanza con gli stessi aguzzini di suo nipote.