Salvatore Cantone poteva essere un imprenditore come tanti, a capo di un’impresa di successo, destinato a vivere un’esistenza serena e tranquilla, dividendosi tra lavoro e famiglia, se solo, lungo la sua strada, non avesse incontrato la camorra.
Un incontro che ha cambiato quel destino che sembrava imperturbabile, ma armandosi di coraggio e determinazione, Salvatore ha saputo ridisegnare la sua vita, non rinnegando i valori in cui ha sempre creduto.
Salvatore gestiva insieme a suo fratello una società con 40-50 dipendenti a Pomigliano D’Arco che lavorava per il Gruppo Fiat. Lavoravano principalmente su appalti pubblici fuori regione, per la costruzione di strutture ed edifici pubblici.
A luglio del 2006, quando nell’azienda di Pomigliano d’Arco si sono presentano un paio di persone, Salvatore era infatti impegnato sul cantiere di un ospedale a Bologna: a suo fratello fu riferito che al suo rientro dovevo andare a Sant’Anastasia, convocato dal clan dei cosiddetti “semesielli”. Quando Salvatore si reca all’appuntamento, di sabato mattina, giù al palazzo scorge una persona che conosceva. A quel punto capisce come e perché quel clan si sia accorto della loro impresa: nel corso di decenni di attività, non avevano mai ricevuto richieste estorsive. La loro impresa, con sede sì a Pomigliano D’Arco, ma sconosciuta alla maggior parte dei cittadini, perché operante fuori dai confini della Campania, era finita nel mirino della camorra per volere di quella persona che “girava intorno al capannone”, poiché lavorava in un campo vicino.
La prima richiesta estorsiva avanzata a Salvatore, sotto minaccia esplicita di una pistola, fu esorbitante: 20mila euro da pagare subito.
D’intesa con il fratello, si accorda per pagare una parte del denaro richiesto, intimando ai camorristi di non farsi più vedere, altrimenti li avrebbe denunciati.
Da quel momento in poi, si alternano fasi altalenanti: le richieste estorsive continuano ad arrivare ad intermittenza, complice la faida scoppiata tra “i Semesielli” e il clan Sarno di Ponticelli che garantisce a Salvatore e a suo fratello ampi periodi di tranquillità, con il clan impegnato su altri fronti.
Nel 2008, le prime figure di spicco del clan Sarno iniziano a passare dalla parte dello Stato e “i Semesielli” possono tornare ad affondare le grinfie sul territorio limitrofo. E’ così che bussano nuovamente alla porta dell’azienda di Salvatore pretendendo altro denaro, ma lui non vuole saperne di cedere alle minacce.
“In quel periodo stavamo seguendo dei lavori alla Fiat di Cassino, lavoravamo prettamente di notte. – racconta Salvatore Cantone – Un giorno ricevo una telefonata da mio fratello: “ci hanno rubato tutto”. Quel furto ci ha arrecato un danno di 150mila euro, eravamo in ginocchio, non potevamo lavorare. Così, mi sono trovato davanti ad un bivio: mio fratello premeva affinchè pagassimo, con la speranza che così facendo ci avrebbero restituito l’attrezzatura, ma guardando le foto di mia moglie e mio figlio, invece, ho capito che la strada giusta era denunciare.”
Inizia così la nuova vita di Salvatore, costretto a chiudere l’azienda, anche perché suo fratello non approva né condivide la sua scelta di denunciare. Quelli che si fanno spazio nella sua vita sono giorni lunghi e lenti, pieni di preoccupazione e paura, oltre che di minacce.
Poi, l’incontro che sancisce la svolta: “In quel periodo frequentavo assiduamente la chiesa. Siamo rimasti io, mia moglie e il sacerdote. Tutti ci consideravano degli “infami”, dei traditori, perché avevamo denunciato e le persone che erano venute a rubare nella mia azienda erano di Pomigliano D’Arco. Proprio in chiesa ho conosciuto un ispettore della Digos, amico di Tano Grasso ed è così che sono diventato rappresentante territoriale della FAI e nel 2008 è nata l’associazione antiracket di Pomigliano D’Arco di cui sono presidente.”
Poi c’è stato il processo e le conseguenti condanne per i camorristi che hanno distrutto la vita e l’azienda di Salvatore. Da quel dolore, da quell’evento così traumatico e violento, Salvatore ha avuto la forza di rinascere e di consentire a qualcosa di più sano e propositivo di germogliare insieme a lui e alle consapevolezze acquisite e ritrovate.
“Nel 2009, con gli altri commercianti dell’associazione e con il sacerdote, decidemmo di mettere in piedi un’iniziativa per la città, quindi organizzammo una manifestazione in nome di Don Peppe Diana, ormai diventata un appuntamento fisso che riproponiamo ogni anno. Alla prima manifestazione parteciparono 150 persone. C’erano il Prefetto e tanti rappresentanti delle forze dell’ordine, marciammo lungo le strade di Pomigliano D’Arco, passando anche nei pressi di quella che un tempo era la mia impresa. Qualche commerciante chiuse le saracinesche. Oggi, quella stessa manifestazione conta la presenza di 2500-3000 persone. Questo significa che nel corso degli anni qualcosa è cambiato, ma non senza grandi sacrifici. Oltre a seguire tutte le associazioni antiracket della provincia di Napoli, per conto della FAI, dedico molto tempo anche all’attività di formazione nelle scuole, un tassello fondamentale, a mio avviso, per cambiare la mentalità: i bambini, i ragazzi rappresentano il futuro.”
Qual è il prezzo più alto che paga un imprenditore che denuncia?
“La solitudine.
In questi anni abbiamo fatto passi da gigante, maturando esperienza, insieme alla magistratura e alle forze dell’ordine. Un aspetto rilevante in quest’ottica è la sensibilizzazione dei cittadini, consentendogli di capire quanto è importante aiutare l’imprenditore che denuncia andando a comprare nel suo negozio. Allo stesso modo è fondamentale che la motivazione che spinge un commerciante a denunciare sia quella di difendere la sua attività e non la speranza di ricevere “un premio” o una qualsiasi altra forma di tornaconto, così facendo si corre il rischio di esporsi concretamente alle vendette della camorra.”
In che modo la presenza di un’associazione antiracket su un territorio previene e contrasta le richieste estorsive?
“L’associazione è formata da imprenditori e commercianti che sono delle vere e proprie sentinelle sul territorio, capaci di carpire “i rumors” e quindi riescono puntualmente ad avvicinare il commerciante o l’imprenditore che è stato avvicinato dalla camorra per convincerlo a denunciare. E’ importante che chi finisce nella morsa di un clan comprenda che, una volta entrato in quel giro, non ne esci più. Lo scopo principale del camorrista è il predominio sul territorio, la richiesta estorsiva altro non è che il modo di far comprendere a te stesso e agli altri che lì comandano lui e il suo clan di appartenenza. Quando non chiedono il pagamento di una tassa, praticano altri tipi di estorsione: in alcuni casi, si appropriano delle aziende, impongono di comprare merce dai loro fornitori di fiducia, anche se impongono prezzi molto più elevati. Oggigiorno, le realtà meno propense a denunciare sono le grandi imprese. La camorra non gli chiede soldi, ma lavori in cambio “di protezione” o si servono dell’impresa per partecipare a gare d’appalto. Molto spesso, gli imprenditori che finiscono in questo modo nel mirino della camorra, stentano a capire che non ne escono più e questo modo di pensare ed agire va assolutamente cambiato: le condizioni e le premesse per denunciare sono cambiate. Chi denuncia può contare sul supporto delle associazioni, delle forze dell’ordine e della magistratura e soprattutto, oggi, esiste la certezza della pena: l’autore di un’estorsione, con rito abbreviato, rischia una condanna che varia dagli 8 ai 12 anni di reclusione. Cosa molto importante, l’associazione ha iniziato da diverso tempo a costituirsi parte civile nei processi.
Ai fini della prevenzione del fenomeno estorsivo, inoltre, le iniziative sul territorio rivestono un’indubbia rilevanza: gli adesivi affissi sulle vetrine delle attività commerciali che aderiscono all’associazione, ad esempio, permettono ai cittadini di “riconoscere” il negozio e sostenere i commercianti che scelgono di ribellarsi alla camorra. Un’iniziativa che al pari della passeggiata antiracket, funge da fattore deterrente per un clan: viene da sé che un camorrista che riconosce quell’adesivo sulla vetrina, non solo sa che corre il rischio di essere denunciato, se varca la soglia per avanzare una richiesta estorsiva, ma che può andare incontro allo stesso destino chiedendo denaro in qualsiasi altra attività della zona, perché quell’adesivo gli suggerisce che in quel comune esiste un’associazione antiracket.”
Quali sono le prossime iniziative in calendario?
“Da settembre parte la formazione nelle scuole, dall’asilo alle scuole superiori, con vari incontri e convegni che culminano nella manifestazione del 19 marzo, in memoria di Don Peppe Diana. Non mancano i concorsi a premi con libri e borse di studio per bambini, per coinvolgerli ed appassionarli. Come ogni anno si svolgerà la passeggiata antiracket prima di Natale. Lo scopo dell’associazione è produrre denunce. Che ben vengano altre iniziative volte a promuovere la legalità.”
Qual è la situazione attuale sul fronte delle richieste estorsive nel napoletano?
“Il fenomeno è ancora diffuso, unitamente all’usura in virtù del momento di crisi che stiamo attraversando. La gente deve avere più coraggio di denunciare, le denunce sono ancora poche. Non esiste un’isola felice esente dal problema, il fenomeno esiste in tutti i comuni. L’ultima denuncia l’abbiamo presa a dicembre, mentre, di recente, qualcuno ha già avuto già la richiesta per la tassa di Ferragosto.”
Cosa sente di dire ad un commerciante che sta subendo minacce estorsive da parte della camorra?
“Di denunciare e rivolgersi senza esitazione alle forze dell’ordine. Oggi ci sono le condizioni per essere aiutati e superare la paura. La paura c’è quando si è soli. In un paese e in una società civili, la maggioranza delle persone sono civili: la nota stonata sono i camorristi. Non sono i lavoratori onesti a doversi sentire a disagio. Lo sbaglio che questa società e perfino le più alte cariche istituzionali tendono a commettere è che quando incontrano un camorrista lo salutano e fanno a gara per offrirgli il caffè con lui: è il camorrista che deve essere isolato, non la persona onesta che denuncia. Se la società in cui viviamo riesce a modificare questo tipo di atteggiamento, si giungerà effettivamente a sancire il punto di svolta.”