Un attentato che ha segnato tante vite, determinando le sorti di diversi clan, oltre che dell’intero quartiere Ponticelli, se non di tutta la periferia orientale di Napoli, generando un vortice di eventi che alla fine degli anni ’90, nessuno avrebbe mai auspicato che potesse tradursi in un’alleanza tra due clan rivali, in virtù di quel genere di ferite che, secondo l’ossequioso rispetto del codice d’onore della camorra “vecchio stampo”, vengono etichettate come insanabili.
Un tempo nemici giurati, oggi, complici ed alleati, pronti a dividere la seduta sul trono dell’impero del male di Ponticelli, come se quelle ferite appartenessero ad un altro clan e quei morti pianti da altri occhi, rispetto a quelli che, oggi, si lanciano sguardi complici e d’intesa.
Nel mezzo, un ventennio di eventi, fortemente condizionati dal declino del clan Sarno e dall’ascesa del clan De Micco.
Oggi, il clan Schisa, che ama farsi vanto del nomignolo “pazzignani”, – seppure, Luigi Piscopo, il fondatore di quest’ultimo clan, sia uscito di scena da diversi anni – è tornato alla ribalta, dopo un bel po’ di anni trascorsi in sordina, complici gli arresti derivanti dalle deposizioni rese dagli ex Sarno passati dalla parte dello Stato e dall’avvento del clan De Micco sulla scena camorristica ponticellese, riuscendo, in breve tempo, ad imporre la propria egemonia, potendo contare su un esercito motivato, ben armato e militarizzato e l’utilizzo di metodi brutali e violenti.
Una ribalta, quella del clan Schisa, conquistata grazie alla nascita di una serie di alleanze strategiche che non vede coinvolti solo i vecchi clan di Ponticelli, ma anche quelli di Barra e San Giovanni a Teduccio.
Attualmente, i riflettori degli inquirenti sono accesi tanto sulle carcasse dei fatiscenti palazzoni del Rione De Gasperi, quanto sul “Lotto O”, l’arsenale del clan De Luca Bossa, l’organizzazione nata in seguito alla dissociazione dal clan Sarno di Antonio De Luca Bossa.
Attualmente, i riflettori degli inquirenti sono accesi tanto sulle carcasse dei fatiscenti palazzoni del Rione De Gasperi, quanto sul “Lotto O”, l’arsenale del clan De Luca Bossa, l’organizzazione nata in seguito alla dissociazione dal clan Sarno di Antonio De Luca Bossa.
Nato a Napoli il 28 novembre 1971, Antonio De Luca Bossa è un camorrista con il Dna da camorrista. Soprannominato “’o sicco”, in virtù della corporatura esile, in netta contrapposizione con la sua indole di malavitoso violento e senza scrupoli, Antonio De Luca Bossa è “un predestinato”: figlio del boss Umberto, un cutoliano morto nel 2008, e di Teresa, la prima lady camorra condannata al carcere duro e tuttora detenuta al 41 bis.
Arrestato a soli 17 anni, per avere partecipato a quella che verrà tramandata ai posteri come “la strage del Bar Sayonara di Ponticelli“, avvenuta l’11 novembre del 1989, nella quale persero la vita molte persone estranee alla malavita, “o’ sicco” si fa le ossa diventando una recluta del gruppo di fuoco del clan Sarno.
Parafrasando una delle frasi-tormentone di Gomorra, gli ex interpreti della camorra ponticellese, oggi in pensione, lo descrivono così “Tonino ‘o sicco”: “Non era uno con la guerra in testa, ma uno con la testa per fare la guerra”.
Tant’è vero che Antonio De Luca Bossa decide di uscire dall’ombra dei Sarno per capeggiare un sodalizio autonomo, in maniera assai eclatante: mette la firma sul primo attentato stragista con un’autobomba della storia camorristica campana.
Tant’è vero che Antonio De Luca Bossa decide di uscire dall’ombra dei Sarno per capeggiare un sodalizio autonomo, in maniera assai eclatante: mette la firma sul primo attentato stragista con un’autobomba della storia camorristica campana.
“‘O sicco” aveva pianificato un attentato in grande stile per disfarsi di uno dei pezzi da 90 dei Sarno, il clan che in quegli anni dominava incontrastato la scena camorristica ponticellese, riuscendo ad imporsi ben oltre i confini di Ponticelli e dell’entroterra vesuviano, grazie all’alleanza con i Misso e i Mazzarella, autorevoli clan del centro storico di Napoli.
Nel 1998, sprezzante del timore reverenziale che “il mostro a tre teste” procreato da quell’alleanza imponeva agli interpreti della malavita napoletana, “‘o sicco” decide di “fare il botto” in stile mafia corleonese.
L’obiettivo dell’agguato doveva essere il boss Vincenzo Sarno, attirato in un tranello, invitato a partecipare ad una riunione con i De Luca Bossa. L’autobomba fu confezionata a Giugliano una settimana prima dell’attentato ed inserita in un ruotino di scorta, poi nascosto in una Lancia Delta di proprietà dei Sarno. L’innesco era radiocomandato, doveva esplodere quando Vincenzo Sarno, come ogni domenica, si faceva accompagnare dal nipote a firmare, perché era sottoposto alla sorveglianza speciale.
Tuttavia, qualcosa va storto e la bomba esplode la sera del sabato prima, il 25 aprile del 1998.
Alla guida della Lancia Delta che percorreva via Argine c’era Luigi Amitrano, nipote di Vincenzo Sarno, nonchè marito della figlia di Luigi Piscopo “‘o Pazzignano”, legato a filo doppio alla cosca del Rione De Gasperi.
Alla guida della Lancia Delta che percorreva via Argine c’era Luigi Amitrano, nipote di Vincenzo Sarno, nonchè marito della figlia di Luigi Piscopo “‘o Pazzignano”, legato a filo doppio alla cosca del Rione De Gasperi.
Gli inquirenti ipotizzano che l’ordigno sia esploso anzitempo per effetto della pressione derivante dall’irregolarità del manto stradale.
La morte di Luigi Amitrano, 25enne luogotenente della camorra di Napoli Est, è un duro colpo al cuore per “i Pazzignani”, ma ancor più per il clan Sarno, tant’è vero che l’ex boss Giuseppe Sarno, nel 2010, nel corso della deposizione rilasciata in veste di collaboratore di giustizia, non è riuscito a trattenere la commozione quando sente nominare suo nipote.
Una carriera in ascesa nel traffico di armi e stupefacenti al servizio del fratello di suo zio, il boss Ciro Sarno – a sua volta fedelissimo del clan Mazzarella – Amitrano morì a mezzo chilometro da casa: l’esplosione viene vissuta in diretta dagli stessi familiari che, oggi, sembrano aver dimenticato quel boato, alleandosi con chi ha decretato quella morte.
Gli investigatori hanno ricostruito minuto per minuto gli ultimi stanti di vita di Amitrano.
Il 25 aprile del 1998, Amitrano esce di casa alle 20.30, in compagnia di un cugino. Pochi minuti dopo, i due vengono fermati da una pattuglia della polizia. Tuttavia, gli agenti non trovano nulla a bordo della sedici valvole blindata. Amitrano si allontana dal posto di blocco, saluta il giovane che è con lui, attraversa la città, diretto all’ ospedale Santobono di Napoli. Nel reparto di pediatria è ricoverata dal giorno precedente sua figlia Rita, di 4 anni.
Amitrano lascerà l’ospedale intorno alle 23: una tempistica calcolata alla perfezione dai killer che entrano in azione nel parcheggio, forzano il portabagagli e posizionano l’ordigno telecomandato all’interno di una ruota di scorta, intorno alle 21.
Il 25 aprile del 1998, Amitrano esce di casa alle 20.30, in compagnia di un cugino. Pochi minuti dopo, i due vengono fermati da una pattuglia della polizia. Tuttavia, gli agenti non trovano nulla a bordo della sedici valvole blindata. Amitrano si allontana dal posto di blocco, saluta il giovane che è con lui, attraversa la città, diretto all’ ospedale Santobono di Napoli. Nel reparto di pediatria è ricoverata dal giorno precedente sua figlia Rita, di 4 anni.
Amitrano lascerà l’ospedale intorno alle 23: una tempistica calcolata alla perfezione dai killer che entrano in azione nel parcheggio, forzano il portabagagli e posizionano l’ordigno telecomandato all’interno di una ruota di scorta, intorno alle 21.
L’auto blindata non basta: Amitrano muore sul colpo, il corpo carbonizzato nell’incendio, quando l’ordigno esplode intorno alle 23.30. Non resta traccia dell’ordigno né dell’esplosivo.
Un agguato per il quale Tonino ‘o sicco è stato condannato all’ergastolo in via definitiva, mentre i congiunti di Amitrano ancora in odore di camorra hanno clamorosamente applicato “lo sconto di pena”, tornando a stringersi la mano e a parlare di affari con la cosca del Lotto O, attualmente capitanata dal fratello di Antonio, Giuseppe De Luca Bossa.
Il colpo inferto dalle pesanti condanne, frutto delle testimonianze rese dai collaboratori di giustizia dell’ex clan Sarno, capeggiati proprio dai fratelli Giuseppe, Ciro, Vincenzo e Luciano Sarno, ha costretto “i pazzignani” a ritrovare una nuova dimensione e all’interno della famiglia c’è stata una scissione netta. Dopo aver scontato il loro debito con la giustizia, i figli di Luigi Piscopo detto “o’ pazzignano” hanno voltato pagina, uscendo definitivamente dalla scena camorristica, mentre la restante parte della famiglia, in primis le donne, rimaste sole ad accudire i figli, proprio perchè “gli uomini d’onore” hanno scelto di non rinnegare la camorra, emulando le gesta dei Sarno, quindi buttandosi tra le braccia dello Stato, hanno continuato a gestire gli affari dell’organizzazione, quasi esclusivamente individuabili nello spaccio di stupefacenti.
Intorno alla figura di Roberto Schisa e di suo figlio Tommaso, con la complicità della cosiddetta “Pazzignana” Vincenza Maione, moglie di Roberto e madre di Tommaso, e soprattutto cugina della moglie di Luigi Amitrano, quella costola fratturata dell’ex clan Sarno è ritornata in auge, soprattutto grazie all’alleanza con i De Luca Bossa del vicino Lotto O di Ponticelli. Due decenni vissuti nella penombra, subendo le angherie dei De Micco, in primis l’imposizione del pedaggio sulle piazze di droga sotto la loro gestione, un affronto intollerabile per “le matrone della camorra” di Ponticelli, perchè maturato per mano di un gruppo di ragazzini, senza storia nè rispetto e ancor più senza un passato criminale di spessore, seppure abili più di tutti a colmare il vuoto di potere generato dall’uscita di scena dei Sarno.
Adesso che le circostanze sono tornate ad essere propizie e le piazze di droga gestite dalle “lady camorra” del Rione De Gasperi sono più gettonate dei baretti di San Pasquale a Chiaia, è tempo di risalire la china. Anche se questo vuol dire stringere delle mani sporche del loro stesso sangue.
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