20 ottobre del 2010: una data che segna l’epilogo di una lunga e complessa attività investigativa che si è protratta per oltre tre anni e che ha consentito di raccogliere una serie imponente di elementi di prova a carico degli indagati.
Nel corso di un’operazione anti-camorra della squadra mobile di Napoli vengono arrestati 16 presunti affiliati al clan Aprea tra cui tre sorelle del capoclan Vincenzo Aprea, Lena, Giuseppina e Patrizia accusate di aver ricoperto un ruolo di spicco a capo dell’organizzazione.
Conquistano così la ribalta mediatica le donne del clan Aprea, sorelle di quattro boss, le cui gesta vengono narrate nella deposizione del collaboratore di giustizia Salvatore Manco.
Alle donne di casa Aprea vengono contestati i reati di associazione per delinquere di stampo camorristico e omicidio. Dalle indagini emerge che le sorelle Aprea gestiscono le casse del clan, pagano gli stipendi agli spacciatori e agli estorsori del pizzo, oltre a provvedere al sostentamento economico degli affiliati finiti in carcere. Controllavano scrupolosamente tutte le entrate e gestivano anche le uscite, erano proprio loro a “fare gli stipendi” agli affiliati.
Il clan Aprea è attivo da decenni nel quartiere di Barra, nella periferia orientale di Napoli e si è distinto per la ferocia con cui ha condotto le “guerre” per il dominio nel quartiere. Gli Aprea ebbero un ruolo di spicco in diversi cruenti agguati messi a segno a Ponticelli, oltre che nella faida con il clan Celeste-Guarino, i cosiddetti “scissionisti” di Barra.
Le indagini della polizia hanno poi provato che Lena Aprea era divenuta una vera e propria “portavoce ufficiale” del capoclan Vincenzo, oltre che responsabile della gestione delle piazze di spaccio del clan e che Giuseppina Aprea, invece ricopriva il ruolo di dirigente della piazze di spaccio – soprattutto di quelle di cocaina – gestite dal clan.
Nel corso dell’attività investigativa, si è potuto accertare che lo stato di detenzione degli affiliati e dei capi non ha costituito un valido deterrente, tanto che, proprio dal carcere, Vincenzo Aprea ha commissionato diversi omicidi: tra essi anche l’ordine di uccidere Francesco Celeste.
Ciò era possibile in quanto, durante i colloqui con i familiari e mediante l’utilizzazione di un linguaggio criptico, il capo del clan riusciva ad essere aggiornato circa l’andamento degli affari ed impartiva ordini per la risoluzione dei “problemi”. In un interrogatorio del giugno 2009, Giuseppe Manco rivela i segni convenzionali utilizzati durante i colloqui in carcere. Ad esempio, si legge, «con l’espressione “invito a nozze” si intende un killer». Ma il killer viene indicato anche con «il pollice verso», segno utilizzato pure «per dire che una persona è destinata ad essere ammazzata». Allo stesso modo, l’ordine di uccidere può essere impartito «indicando con un dito il pavimento». Proprio in conseguenza di tali indagini, ed al fine di arginare l’operatività di tale gruppo camorristico, in seguito al blitz che ha tradotto in carcere le donne del clan Aprea, al boss Vincenzo è stato applicato il regime del 41 bis.
Gestivano l’economia del clan, preparavano gli stipendi per gli affiliati, comandavano le piazze di spaccio e curavano le comunicazioni fra i boss detenuti e il resto della famiglia. In sostanza, le donne, nelle decisioni importanti avevano sempre l’ultima parola: anche uscendo dalla Questura, quel 20 ottobre 2010, hanno lanciato baci a familiari e conoscenti, ostentando la sicurezza e l’intransigenza confacente al codice d’onore che ispira le gesta dei più navigati interpreti della malavita.
Il pentito Giuseppe Manco racconta di quando il boss Vincenzo Aprea «entro una settimana doveva leggere sul giornale che, quantomeno, Francesco Celeste o il padre erano stati ammazzati». L’omicidio di Celeste, per il quale le donne spinsero fortemente, sancì la rottura definitiva fra l’omonimo gruppo criminale e gli Aprea. Questi ultimi, infatti, venivano umiliati e vessati dai rivali, i quali spararono a tre ragazzi degli Aprea che facevano ritorno da una partita del Napoli, spararono più volte verso casa di Lena Aprea, uccisero Ciro Esposito, sequestrarono un affiliato del clan e imposero a un altro di acquistare due numeri di una riffa per 150 euro l’uno.
A quel punto, le donne comandarono la dura replica del clan. Le tre sorelle Aprea, irruppero nel bunker dei loro affiliati pretendendo che i Celeste venissero immediatamente ammazzati. Altrimenti, avrebbero riferito al capolclan che gli affiliati non erano «buoni a niente». A quel punto uno di loro (Gaetano Cervone) si alzò dicendo «ora toglietevi dai piedi, stasera Vincenzo avrà soddisfazione».
Dunque è il collaboratore di giustizia Giuseppe Manco a rivelare che nella camorra del quartiere Barra sono le donne a portare i pantaloni. «Nel clan Aprea il controllo dell’economia era esercitato da loro. Ed erano sempre loro a dare l’ultima parola, nel senso che controllavano anche i conti portati da noi». Soprattutto, dice ancora il collaboratore di giustizia, «le donne prendono le redini quando gli uomini sono detenuti».
Un’ altra circostanza sulla quale sono in corso indagini riguarda gli incontri del 2003 fra le organizzazioni camorristiche Aprea e Sarno per stringere «accordi in relazione alle estorsioni da realizzare per le grandi opere», in primis l’estorsione pretesa dalla ditta che stava lavorando alla costruzione del Centro Commerciale Auchan di Ponticelli. Manco ha spiegato agli inquirenti che, per evitare sospetti di gestione “infedele” dei proventi della droga aveva preso l’abitudine di «far firmare le ricevute di tutte le somme che consegnavo ai membri della famiglia Aprea».
Il racconto di un altro collaboratore di giustizia, Salvatore Manco, fratello di Giuseppe, condannato per il duplice omicidio dei fratelli Vincenzo e Mariano Capasso, uccisi il 4 aprile del 2008, ricostruisce quei fatti di sangue. Vincenzo Capasso, nella ricostruzione investigativa, era stato utilizzato come killer di Francesco Celeste ed era entrato in contrasto con il clan anche per ragioni economiche, perché reclamava la restituzione di una somma di mille euro. Ma secondo Manco, a decretarne la morte fu anche un equivoco legato a un presunto apprezzamento nei confronti di Lena Aprea. «È stato ucciso per una guardata di seno», sostiene il pentito che proprio dopo questo episodio comincerà a collaborare con la giustizia.
Il 17enne Mariano Capasso, fratello di Vincenzo, agonizzante, dopo che gli avevano sparato un colpo di pistola al petto, afferra il telefonino e chiama il 113: «Sono stati gli Aprea». E poco dopo in ospedale sussurra all’ispettore della polizia di San Giovanni a Teduccio: «Sono stati il cognato di Aprea, Ciro Prisco, e Peppe ‘o mostro». Poco dopo muore, proprio mentre le due persone di cui il giovane ha fatto i nomi agli investigatori, spariscono nel nulla. Fuggono dal quartiere Barra.
I due fratelli Vincenzo e Mariano Capasso, 21 e 17 anni, vivevano in via Cleopatra a Ponticelli, in quel Lotto O che rappresenta, oggi come allora, il bunker del clan De Luca Bossa. Uccisi in via Serino a Barra, in casa della sorella dei quattro boss Aprea. In via Cleopatra, secondo gli investigatori, sarebbe stato proprio Vincenzo Capasso – con precedente per rapina – a gestire lo spaccio di droga per conto degli Aprea, mentre il fratello minorenne era ufficialmente incensurato. Suo referente per la contabilità criminale Ciro Prisco, marito di Lena Aprea. Prisco è anche il luogotenente del clan, da quando gli ultimi reggenti della cosca erano stati arrestati dalla Squadra mobile per aver tentato una estorsione ai cantieri del futuro centro commerciale Auchan.
Prima di uccidere Vincenzo Capasso, personaggio diventato scomodo per gli Aprea, i membri del clan lo invitarono al ristorante «Zi’ Teresa» pagando la cena coi soldi che la futura vittima aveva prestato a un affiliato. In previsione dell’agguato, non ritennero necessario restituirglieli.
Il pomeriggio prima dell’agguato Capasso cerca Prisco: deve essere pagato da parecchi giorni per l’attività di spaccio, ma quei soldi tardano ad arrivare. Prisco lo invita a casa, in via Serino, dove il giovane si presenta con il fratello minorenne. Vengono ricevuti nel soggiorno dove il padrone di casa si sarebbe trovato, secondo quanto ha detto Vincenzo Capasso prima di morire, con un personaggio dal soprannome di Peppe ‘o mostro. Quindi, presumono gli investigatori, scoppia la lite. Il sopralluogo della polizia scientifica chiude il cerchio. Il Luminol, sostanza che rileva anche le tracce di sangue lavate via con la varichina, evidenzia le macchie nel soggiorno di casa Prisco-Aprea. I due fratelli erano stati ritrovati nel cortile antistante il basso ora sequestrato. L’attività della scientifica svela la scia di sangue dal soggiorno al cortile, dove i Capasso avevano cercato scampo e dove Vincenzo era morto pochi istanti dopo gli spari. Trovati anche reperti balistici, frammenti di ogive e proiettili. Un contributo utile alle indagini viene fornito dai tre cellulari rinvenuti nelle tasche di Vincenzo Capasso.
Interrogata la sorella dei boss, Lena Aprea – che ha dovuto lasciare la casa di via Serino perché sequestrata – ha dichiarato di trovarsi altrove nel momento del duplice omicidio.