Tornano alla ribalta gli ex boss del clan Sarno, la cosca criminale che a partire dagli anni ’80 e fino al 2009 ha ricoperto un ruolo di spessore nell’ambito delle dinamiche camorristiche che dal Rione De Gasperi di Ponticelli, seppero spingersi alla conquista del centro cittadino e dell’entroterra vesuviano. Mostrando di essere al passo con le mode del momento, i Sarno si servono dei social per irrompere nella faida in corso, dove più clan si stanno contendendo la conquista dello scettro dell’impero del male, dopo i 23 arresti che lo scorso novembre hanno decretato il declino dei “Bodo”, l’organizzazione che proprio dopo la resa dei Sarno ha saputo imporsi Ponticelli.
Dirette di pochi minuti, dai contenuti piuttosto espliciti, dove a parlare sono quasi sempre loro: l’ex boss Giuseppe Sarno e sua cognata Patrizia Ippolito, detta “a patana”, moglie di suo fratello Vincenzo. Entrambi inclusi in un programma di protezione, corrono il pericolo di mostrare dettagli o particolari utili a svelare la località in cui si trovano, pur di comunicare con quel quartiere e con quelle “pedine” che evidentemente non hanno mai davvero dimenticato.
“Un bacio a tuo fratello“: esordisce così Peppe Sarno, rivolgendosi alla sorella di Vincenzo Pace, il 47enne luogotenente di Emanuele Cito, ucciso in un agguato in via Rossi Doria nell’aprile del 2015. Emanuele Cito, dopo il declino dei Sarno, tentò “la scalata al potere” ed era proprio lui il reale obiettivo dei killer. L’ex boss del Rione De Gasperi continua la diretta rassicurando la Pace dicendo: “verranno i momenti belli, non ti preoccupare“.
L’ex boss, assai cambiato nell’aspetto, rincara la dose: “Noi fratelli Sarno ci amiamo”. “noi fratelli Sarno ci amiamo”, lo ripete, battendo la mano sul petto. E poi aggiunge: “Chi non vuole bene ai fratelli Sarno…”l’ex numero uno della cosca di Ponticelli termina la frase portando il pollice verso il basso, proprio come facevano gli antichi imperatori romani quando volevano decretare la morte di un “gladiatore”. Pronuncia messaggi subliminali, l’ex boss di Ponticelli, mentre “a patana” se la ride di gusto e poi aggiunge: “è sempre lui, non cambia mai…viva la sincerità”.
“Vi vogliamo bene, fate i bravi”: termina con questa raccomandazione la diretta che ha scatenato le ire dei parenti degli ex gregari del clan Sarno, condannati a scontare pene severissime, proprio in virtù delle dichiarazioni fornite agli inquirenti da Giuseppe Sarno e dagli altri collaboratori di giustizia della ex cosca di Ponticelli che, di fatto, hanno decretato moltissime condanne.
E’ solo una delle tante “dirette” partite dalle località protette in cui i Sarno “passati dalla parte dello Stato” si rivolgono ad amici e parenti che si trovano a Ponticelli, a partire dai primi giorni del 2018.
Puntualmente, terminata la diretta, i video vengono cancellati. In molti riferiscono che nel corso di altri “live”, Giuseppe Sarno abbia più volte inneggiato alla “pace” tra “fratelli” e “famiglia”, oltre ad annunciare l’imminente ritorno dei Sarno a Ponticelli, lasciando intendere che sono pronti a “tornare a comandare”.
Giuseppe Sarno detto ” ‘o mussillo” è stato un vero e proprio generale della camorra. Capo dell’omonimo clan di Ponticelli, ambiva ad estendere il più possibile l’egemonia della sua organizzazione criminale. Dal bunker del rione De Gasperi, i Sarno, a partire dagli anni ’80, hanno conquistato Cercola, Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, spingendosi fino al quartiere Mercato con l’alleanza dei clan Misso, Formicola e Ricci.
Dopo l’arresto dei fratelli Ciro e Vincenzo, Giuseppe Sarno subentra a capo della cosca e sembra determinato a tenere ben strette tra le mani le redini del clan fondato dalla sua famiglia.
Latitante dal gennaio del 2009, il 4 aprile dello stesso anno viene arrestato in un appartamento di Trastevere. Sprezzante del pericolo, per il suo cinquantunesimo compleanno organizzò una festa con i familiari, nel suo nascondiglio all’ultimo piano di via Trastevere al civico 148 a Roma. Ai carabinieri è bastato seguire i familiari per raggiungere “la tana del lupo”: quando fecero irruzione nell’appartamento in cui il boss si nascondeva, “o mussillo” cercò di fuggire sui tetti, ma il boss non era abbastanza agire per riuscire a sottrarsi alla cattura.
Il carcere, però, si rivelò ben presto una pena troppo dura da patire e il boss di Ponticelli prese la decisione che ha sancito la fine dell’impero del male fondato dai Sarno: diventò collaboratore di giustizia.
Un pentimento che perfino i parenti contigui alla malavita non gli hanno mai perdonato e che valse fin da subito pesanti intimidazioni e minacce ad Anna Emilia Montagna, la moglie dell’ex boss, per indurre il marito a ritrattare le dichiarazioni già rese e a non spingersi oltre, fornendo altri elementi agli inquirenti. Dopo il pentimento dello storico capoclan Giuseppe Sarno, è stato accertato che i suoi fratelli ed altri esponenti del clan avevano ripetutamente minacciato la moglie, Anna Emilia Montagna. Dalle indagini, infatti, è emerso che la decisione di Giuseppe Sarno ha provocato un autentico terremoto negli equilibri della criminalità organizzata napoletana, oltre ad un’irreversibile rottura dei rapporti con i fratelli, con i quali per anni aveva condiviso le responsabilità derivanti dalla gestione del clan di famiglia. In seguito al pentimento dell’ex boss, alcuni suoi familiari ed altri esponenti della cosca si sono recati più volte a casa della moglie, minacciandola di morte per indurre il marito a interrompere la collaborazione con la giustizia. Ad Anna Emilia Montagna sarebbe stato intimato, tra l’altro, di abbandonare il coniuge e la casa di famiglia, nel caso in cui Giuseppe Sarno non avesse ritrattato quanto già detto ai magistrati. Anche il figlio Salvatore, detto ‘Tore ò pazzo’, minacciava di morte sua madre per questo motivo. Il figlio di Giuseppe Sarno ha sin da subito intrapreso la carriera camorristica, tra le maglie del clan di famiglia e quando giunse la notizia del pentimento, puntò il dito contro la madre e le assicurò che sarebbe morta, se non si fosse impegnata, affinchè quell’uomo che rinnegò come padre terminasse la collaborazione con la giustizia. A casa della madre, Salvatore ci andava molto spesso, accompagnato dagli zii e dai cugini: ai carabinieri non risulta comunque che la donna sia stata anche oggetto di violenze fisiche.
Giuseppe Sarno non ritrattò, anzi, fornì agli inquirenti preziose e minuziose informazioni, dalle riunioni in barca in mare aperto per non essere disturbati, fino ai tanti elementi utili a ricostruire intrighi ed omicidi che hanno segnato gli anni in cui era il clan del Rione De Gasperi a tenere sotto scacco Napoli e provincia.
Patrizia Ippolito, detta “a patana” è la moglie di Vincenzo Sarno, fratello di Giuseppe, ed è stata una delle prime donne-boss della storia camorristica napoletana. Quando il marito fu arrestato, prese il suo posto all’interno del clan. Anche la Ippolito, come il cognato, fu arrestata dopo un periodo di latitanza, in quanto ricercata per associazione mafiosa. Era nascosta nell’appartamento di suo fratello, insieme alla moglie di Ciro Sarno, nel Rione de Gasperi di Ponticelli. Secondo gli inquirenti, Giovanna Confessore e Patrizia Ippolito avevano un ruolo delicato nella organizzazione mafiosa, avendo assunto e mantenuto il controllo di tutte le attività illecite del clan, dopo l’ arresto delle figure di spicco della cosca.
Tra faide, pentiti, e arresti, infatti, il clan provò a rimanere in piedi, sorretto da un manipolo di ‘guaglioni’ sotto le direttive di Salvatore Tarantino, mentre proprio “a patana” era la mente della cosca. Tarantino muore in un agguato, mentre la Ippolito, come detto, poche ore dopo quell’omicidio, viene tratta in arresto.
La Ippolito, non fu portata in carcere, ma in un luogo protetto. Fino all’istante prima, gestiva gli affari dei Sarno mentre Tarantino guidava il gruppo di fedelissimi con i quali cercava di riconquistare gli spazi perduti. Proprio a causa di un incontro con la Ippolito, finì in manette anche Achille De Simone, un consigliere comunale che da moltissimi anni era addentrato nelle dinamiche politiche del territorio. De Simone – defunto nell’aprile del 2014 – fu accusato di violenza privata per aver impedito, secondo i magistrati, la nascita di uno sportello anti-racket nel comune di Cercola. “Lei ci è stato sempre amico” avrebbe detto la Ippolito al consigliere che all’incontro aveva portato il nipote Giovanni De Stefano, promotore del progetto per aprire lo sportello, precisando che avrebbero acconsentito all’apertura, a patto che avesse fornito prima a loro e poi agli inquirenti i nomi dei commercianti che avrebbero denunciato il pizzo.
“Per noi – avrebbe detto sempre la Ippolito a De Simone mentre De Stefano restava zitto – suo nipote può anche aprire lo sportello, ma non è la guerra che ci deve fare. Si deve mettere a disposizione a noi, deve avvisarci in caso si presenteranno persone intenzionate a denunciare”.