Per capire quello che sta accadendo attualmente, sul fronte camorristico, a Ponticelli è necessario tornare indietro nel tempo e ripercorrere alcuni episodi che hanno segnato l’era in cui era il clan Sarno a dominare la scena.
Il Rione De Gasperi di Ponticelli era il bunker del clan, una roccaforte nella quale i Sarno offrivano una casa, protezione e affiliazione a tante famiglie che oggi continuano a vivere lì, nonostante “lo sfascio” conseguenziale al “pentimento” delle figure-simbolo del clan passate dalla parte dello Stato. Quello che resta della camorra ,oggi, nel rione che fu l’arsenale dei Sarno, dopo numerosi arresti scaturiti proprio dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia, sono tanti focolai a capo di diverse piazze di spaccio, tutte gestite da figure legate, in maniera diretta o indiretta, al vecchio clan e che in più circostanze sono finite al centro di episodi concitati, come stese, raid intimidatori e “litigi accesi”.
Al centro della scena camorristica ponticellese finiscono nuovamente “i macellai di Ponticelli”: ribattezzati così perchè, attraverso cruenti omicidi, misero a tacere, tra il 1994 e il 2002, coloro che si riteneva fossero in procinto di lasciare il “sistema” per collaborare con la giustizia.
Roberto Schisa, 57 anni, e Luigi Piscopo, 59 anni, per questa ragione sono stati condannati all’ergastolo.
Luigi Piscopo detto ’o pazzignano è il consuocero di Ciro Sarno detto ’o sindaco e quando i boss furono tratti in arresto, a capo dell’organizzazione subentrò lui, che era detenuto agli arresti domiciliari.
Per questa ragione, parenti e figure affini a quella di Piscopo vengono tutt’oggi denominati “i pazzignani”, perchè provenienti dal Rione Pazzigno, una delle tante porzioni della zona di Napoli est attraversata da edifici di edilizia popolare, sorta ad occidente di San Giovanni a Teduccio ed occupata esclusivamente da case popolari estratte da un progetto di risanamento del 1965. Quindi, un soprannome che sottolinea la provenienza “esterna” del clan, nato fuori dal Rione De Gasperi, trasferitosi nel bunker dei Sarno a Ponticelli e qui insediatosi, complici intrecci di parentela, frutto di matrimoni tra “pazzignani” e membri della famiglia Sarno e Schisa. “I pazzignani” occupano, così, da decenni, una fetta consistente del Rione De Gasperi, compresa grossomodo tra gli isolati 8 e 10 – salvo nuove “strategiche” collocazioni tra i relitti delle “case murate” – l’ironia del destino vuole che si tratti proprio degli isolati che il Comune di Napoli sta censendo in vista dell’assegnazione degli ultimi 50 alloggi nel “nuovo Rione De Gasperi”.
Roberto Schisa e Luigi Piscopo, come detto, sono stati condannati all’ergastolo per i crimini che hanno commesso, ma hanno scelto di scontare per intero la pena, pur di non rinnegare “il sistema” ed è proprio questa sostanziale e fondamentale presa di posizione a creare due schieramenti tra i superstiti di quello che un tempo fu il clan più autorevole dell’intero hinterland vesuviano: “parenti dei pentiti” su un fronte, “parenti degli uomini d’onore” sull’altro.
I Sarno hanno sempre adottato la politica “nessuna pietà per i traditori”, adottando quella che gli inquirenti hanno definito la «strategia del terrore» contro i pentiti: Giuseppe Schisa, fu consegnato ai Sarno dal fratello Roberto proprio per questa ragione.
A far luce su quella che per ovvie ragioni fu denominata dagli inquirenti “operazione Caino” fu il boss Giuseppe Sarno. Quando il pm Vincenzo D’Onofrio gli ha chiesto: «Roberto Schisa sapeva cosa facevate voi a chi si pentiva?» Il boss ha risposto: «Lui è venuto a dire questo proprio per fare uccidere il fratello. Lo sapevano tutti che fine facevamo fare a chi si pentiva».
Giuseppe Schisa aveva pensato di pentirsi e ne aveva parlato con qualche amico. In un contesto come quello del Rione De Gasperi, le voci corrono veloci e la notizia giunse ai capi che cercarono di mettersi in contatto con lui per eliminarlo. Tutti, affiliati e non, sapevano bene che quello era il destino che il clan imponeva a chi decideva di passare dalla parte della giustizia.
Roberto Schisa, fratello di Giuseppe, decise di consegnare il fratello al clan e così presentò dinanzi a Giuseppe Sarno. Per ingraziarsi il boss, tese una trappola mortale al fratello: lo accompagnò nell’androne di un palazzo nella zona dello “stretto” di Corso Ponticelli, dove lo attendeva un killer pronto a sparare. Andò via qualche attimo prima che il sicario infierisse sul fratello con una raffica di colpi di pistola.
“I pazzignani” possono essere attualmente definiti il focolaio più autorevole del “clan anti-Sarno”, insorto nel De Gasperi proprio in seguito al declino di questi ultimi: il forte odio misto a rancore nei confronti dei collaboratori di giustizia e dei loro parenti è senza dubbio il tratto distintivo più importante dell’organizzazione, fino a portare gli inquirenti ad ipotizzare un loro possibile coinvolgimento nella “vendetta contro i parenti dei pentiti dei Sarno”, ovvero il vortice di agguati che, tra gennaio e marzo del 2016, hanno provocato la morte di diversi parenti degli ex boss di Ponticelli, attualmente passati dalla parte dello Stato, costringendoli ad abbandonare il quartiere per entrare in un programma di protezione.
Un mix tra “vecchio e nuovo”, rifocillato dalla consistente presenza di giovani reclute, cresciute e istruite nel rispetto delle regole della camorra e pronti a rivendicare con orgoglio, soprattutto sui social, il forte senso d’appartenenza che li lega alla malavita. Uomini e donne, figure legate alla “vecchia camorra” e giovani rampolli ai quali basta vedere una pistola per esaltarsi: “i pazzignani” sono tanti, ben organizzati e molto uniti, non solo da un forte vincolo di parentela, ma anche dalla condivisione degli stessi ideali.
Giovani che acclamano Luigi Piscopo e Giuseppe Schisa come se fossero degli eroi da emulare e rispettare. Le foto che immortalano il momento dell’arresto, i ritagli di giornale che raccontano i reati e i sanguinari omicidi che hanno commesso, per i figli, i nipoti di quel sistema, diventano cimeli da custodire gelosamente e da esibire con orgoglio, come la più prestigiosa delle medaglie. Un senso d’appartenenza che diventa un vero e proprio “urlo di battaglia” da mostrare soprattutto sui social.
Proprio attraverso i social, trapela in maniera tanto forte quanto inequivocabile la grande attesa carica di aspettative legata alla scarcerazione di Tommaso Schisa, detto “o’ muccusiello”: aveva 25 anni quando nel settembre del 2016 fu arrestato dai carabinieri di Marigliano, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal tribunale di sorveglianza di Napoli.
Un arresto che scaturì dall’aggravamento della libertà vigilata a cui Schisa era stato sottoposto dal dicembre 2015, quando fu scarcerato dopo un periodo di detenzione in carcere per omicidio: nel novembre del 2007, appena 16enne, venne condannato a 16 anni di reclusione per aver ucciso a sangue freddo di un ragazzo di 27 anni.
Numerose le violazioni compiute dal giovane e segnalate dai carabinieri all’autorità giudiziaria: mancava di presentarsi sul posto di lavoro, frequentava soggetti pregiudicati, non rispettava gli orari di rientro a casa che un libero vigilato dovrebbe osservare. Per questo motivo, attualmente è detenuto nel carcere di Poggioreale e “i pazzignani” sognano e invocano a gran voce la sua scarcerazione per riporre “la ciliegina sulla torta” che non vogliono dividere con nessuno, non adesso che “i Bodo” sono usciti di scena e i Sarno sono un lontano e fastidioso ricordo, quindi possono tornare a calcare la scena camorristica da protagonisti.
Dopo diversi anni trascorsi “alla finestra” a guardare quello che accadeva, perchè incapaci di contrastare la forza dei De Micco, “i pazzignani” hanno curato i loro interessi, principalmente legati alla gestione di alcune piazze di spaccio nel Rione De Gasperi, proprio negli edifici in cui abitano da decenni e intrecciando alleanze strategiche con chi, come loro, covava lo stesso desiderio di vendetta, rivalsa e riscatto.
Non hanno perso tempo “le pazzignane” del Rione De Gasperi, dopo i 23 arresti che lo scorso 28 novembre hanno notevolmente ridimensionato il clan De Micco. Secondo quanto riferito da alcuni collaboratori di giustizia “sono andate a fare casino dai “Bodo” per non pagare le piazze di spaccio, perciò mercoledì 29 novembre “i Bodo” hanno sparato su “Carmine o russ” colpendo la sua stanza da letto che sta al primo piano”.
“La stesa” avvenuta nel tardo pomeriggio di mercoledì 29 novembre, quindi, sarebbe la replica del clan De Micco all’atto di ribellione delle “pazzignane” che hanno palesemente esternato la volontà di non riconoscere più alcuna autorità al clan dei tatuati. Immediata la risposta di questi ultimi che hanno messo a segno quella “stesa” sparando diversi colpi d’arma da fuoco contro quella che erroneamente avevano individuato come l’abitazione della “pazzignana” a capo della piazza di droga alla quale i De Micco avrebbero voluto recapitare il messaggio intimidatorio. I cecchini, però, hanno sbagliato i calcoli e, dunque, hanno mirato alla stanza da letto di “o’ russ” che, seppure notoriamente invischiato nel business dello spaccio di droga all’epoca dei Sarno, è del tutto estraneo al “regolamento di conti” attualmente in atto tra “pazzignani” e clan De Micco.
Una stesa ordinata per imporre la chiusura di quella piazza di droga che storicamente rappresenta “la gallina delle uova d’oro” dei pazzignani, in quanto stimata essere una delle più redditizie del rione, seppure sensibilmente danneggiata dal sopravvento preso dal “supermercato della droga” insorto nell’isolato 2 e capeggiato da un uomo imparentato con alcuni Sarno passati dalla parte dello Stato e per questo motivo odiatissimo dai “Pazzignani”. Un odio inasprito dalla “concorrenza spietata” che ha portato la piazza di droga dei “pazzignani” a perdere numerosi clienti ed introiti negli ultimi due anni, ovvero, da quando la piazza di droga dell’isolato 2 ha preso il sopravvento.