Palermo, 7 dicembre 1984 – Leonardo Vitale, 43 anni, “il primo vero pentito di mafia per motivi di coscienza”, muore per le ferite riportate nell’attentato del 2 dicembre. La sua è una storia particolare, perché racconta la sconfitta di uno Stato che non ha creduto al primo uomo che aveva avuto il coraggio di rompere l’omertà all’interno di Cosa Nostra.
L’attentato di Vitale – aveva spiegato ai magistrati un ex boss, poi collaboratore di giustizia – era una lezione. “Come dire, anche fra 10, 20 anni, noi ti cercheremo sempre”.
Leonardo Vitale nasce nel 1941 a Palermo. Appartiene ad una famiglia mafiosa e viene allevato ed educato nel rispetto dei “valori” di Cosa Nostra. La sua vita, però, subisce una prima svolta a soli tredici anni, quando il padre muore e viene preso in consegna da suo zio, Giovanbattista Vitale, uomo d’onore della famiglia di Altarello di Baida.
Viene presto affiliato a Cosa Nostra e inizia a farsi strada compiendo delitti ed altri gravi reati. Leonardo è chiamato a dimostrare a suo zio di avere coraggio e, dunque, si sottopone a diverse prove. A partire da reati e omicidi apparentemente più semplici. Uccide alcuni animali, ma la prova del nove arriva nel 1958: a soli 17 anni Leonardo Vitale commette il suo primo omicidio. La cosca mafiosa alla quale viene iniziato è quella di Altarello di Baida, diretta dallo zio Titta.
Gli vengono commissionati sequestri non solo dallo zio, ma anche da un altro mafioso di alto rango, Pippo Calò. Nel 1972, però, è costretto ad affrontare una prova dura: il carcere. Leonardo Vitale viene arrestato a causa del sequestro dell’imprenditore Cassina e sin dai primi giorni della detenzione comincia a mostrare una certa sofferenza. Viene, infatti, tenuto in isolamento. La magistratura, però, non trova particolari indizi a suo carico e, così, dopo circa cinquanta giorni torna in libertà. I primi disturbi di tipo psicotico cominciano proprio dopo l’uscita dal carcere. Per circa un mese non parla con nessuno. Il suo atteggiamento comincia a preoccupare sia i familiare che i mafiosi. Vitale viene visitato da un neuropsichiatra che gli riscontra una sindrome paranoide depressiva che consiglia il ricovero.
Sul finire del 1972 Vitale viene inviato in una clinica privata dove resterà per circa trenta giorni. Viene curato con diversi psicofarmaci, ma non solo. Per otto giorni viene sottoposto all’elettroshock. Nel referto si parla di una depressione derivante da manie di persecuzione. All’uscita dalla clinica viene condotto al soggiorno obbligato presso l’isola dell’Asinara. Il soggiorno, però, dura davvero poco perché nel mese di dicembre del 1972 Leonardo Vitale finisce nuovamente in clinica psichiatrica, stavolta in Sardegna, precisamente a Sassari. Le sue condizioni psichiche si aggravano, a tal punto che i medici gli diagnosticano uno stato associativo. Vitale è sempre nervoso, urla ed è spesso aggressivo con tutti. Arriva addirittura a ricoprire il suo corpo di feci. Dopo alcuni giorni viene dimesso e fa ritorno a casa.
I sensi di colpa sono il vero punto debole di Vitale. Prova dispiacere per il fatto che la madre abbia dovuto seguirlo in quei mesi di calvario, in giro per le varie cliniche.
Il 29 marzo del 1973 la vita di Leonardo Vitale cambia per sempre: si recò spontaneamente in Questura per autoaccusarsi di gravi delitti, tra cui alcuni omicidi e quelli compiuti da Cosa Nostra. Fu il primo che, per motivi di coscienza, rivelò l’organizzazione mafiosa in Sicilia e i legami tra mafia e politica. Nell’immediato, le sue dichiarazioni portano all’arresto di circa quaranta esponenti della cosca alla quale egli si era affiliato, quella di Altarello di Baida.
Nell’aprile del 1973 il procuratore della Repubblica Vincenzo Terranova lo ascolta. L’avvocato di Vitale spinge affinché il suo assistito venga giudicato incapace di sottoporsi ad un processo a causa della sua infermità mentale. Il magistrato, però, ritiene Vitale attendibile. Pochi giorni dopo, viene ucciso un cugino di Vitale. Leonardo si era confidato con lui poco prima di recarsi in Questura. E’ certamente un segnale preoccupante per la famiglia di Vitale. Le sue condizioni sembrano peggiorare giorno dopo giorno e tutto ciò influisce negativamente sulla veridicità e attendibilità delle sue dichiarazioni. Viene, infatti, sentito nuovamente in quel periodo, ma sembra molto più confuso rispetto al mese precedente. Di conseguenza, la metà delle persone che egli aveva fatto arrestare con le sue dichiarazioni viene scarcerata.
Viene nominato un collegio di periti, composto da Aldo Costa, Vittorio Terrana e Agostino Rubino. Viene sottoposto a diversi test di tipo psicologico. Il risultato finale, comunque, è una diagnosi di sindrome schizoide. Vitale finisce in depressione e tenta addirittura il suicidio. Nel luglio del 1973 gli viene riconosciuta la semi-infermità mentale, ma le sue dichiarazioni vengono, comunque, giudicate attendibili. I periti non nascondono che in quei giorni Vitale possa aver ricevuto delle pressioni, sia nel carcere che da persone esterne.
Nell’ottobre del 1973 Leonardo Vitale viene trasferito in un manicomio criminale. La struttura che lo ospita è quella di Barcellona Pozzo di Gotto. Nel 1974 passa prima all’Ucciardone e poi viene nuovamente ricoverato in una struttura privata. E’ convinto che verrà ucciso e che la stessa sorte toccherà anche ai suoi familiari. Sembra essere forte il rischio di suicidio e, così, Vitale viene dimesso.
Nel 1977, a Palermo, tra maggio e luglio, si svolge il processo nato proprio in seguito alle dichiarazioni dell’ex mafioso che non sempre si mostra lucido negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni. Sta di fatto che la pena maggiore viene inflitta proprio a lui. Viene, infatti, condannato dalla Corte d’Assise a 24 anni di carcere. 23 anni di reclusione, invece, per lo zio Titta, alias Giovanbattista Vitale, colui che lo aveva iniziato al mondo criminale. In nove vengono assolti, mentre gli altri chiedono di essere giudicati in appello.
Il processo d’appello parte nel maggio del 1979. Scadono i termini di detenzione e a Vitale viene concesso il soggiorno obbligato. In circostanze misteriose scompare suo zio, il suo corpo non viene ritrovato.
Vitale rimane in carcere fino al 1984 e intraprende una forte conversione spirituale. Quando esce dal carcere psichiatrico di Reggio Emilia torna a casa dalla madre, probabilmente consapevole che non gli rimane molto da vivere. La mafia non dimentica e conferma l’attendibilità delle sue dichiarazioni quando, la mattina del 2 dicembre 1984, viene ferito a morte da cinque colpi di arma da fuoco, dopo essere tornato dalla messa con sua madre e sua sorella.
La storia di Leonardo Vitale, il primo grande pentito di Cosa Nostra che aveva parlato anche di boss del calibro di Totò Riina e di esponenti politici di spicco come Vito Ciancimino, viene citata dal giudice Giovanni Falcone nel corso del Maxiprocesso a Cosa Nostra.
Le dichiarazioni di Vitale furono, comunque, confermate dal pentito Tommaso Buscetta e dai tanti delitti che si consumarono negli anni ’80 e che lui stesso aveva preannunciato.
La vicenda di Vitale è stata ricostruita nel libro “L’uomo di vetro” dal quale è stato tratto l’omonimo film, uscito nel 2007.