Fasano (Brindisi), 2 dicembre 1981 – Palmina Martinelli aveva appena 14 anni, quando, l’11 novembre del 1981, il suo corpo venne ritrovato ancora in preda alle fiamme dal fratello maggiore, Antonio, che rientrando sentì odore di bruciato e i suoi deboli lamenti.
Palmina aveva cercato di spegnere il fuoco sotto la doccia, ma in quel momento mancava l’acqua. Il fratello la caricò in auto, portandola subito in ospedale. Morì il 2 dicembre, dopo 22 giorni di sofferenza a causa della gravità e l’estensione delle ustioni.
Prima che morisse, un magistrato, munito di registratore, la interrogò, chiedendo cosa fosse successo e chi fosse stato a ridurla in quello stato. La ragazza era lucida, ancora in grado di capire e di rispondere, anche se con una voce appena percettibile, rispose “Alcool e fiammifero” e fece i nomi di due ventenni. Di uno dei due, fece anche il cognome ed era il ragazzo di cui si era innamorata. Dell’altro, rispose “Non so”, conosceva solo il nome. I due volevano costringerla a prostituirsi e lei si era fermamente ribellata e opposta. «Entrano Giovanni ed Enrico e mi fanno scrivere che mi ero litigata con mia cognata. Poi mi chiudono nel bagno, mi tappano gli occhi, mi mettono lo spirito e mi infiammano», questa la ricostruzione dei fatti fornita dalla giovane vittima di quel brutale omicidio.
In seguito a varie udienze processuali, furono entrambi scagionati per insufficienza di prove. In aula venne anche fatto ascoltare il nastro registrato, ma alla conclusione del processo, si chiuse il caso come suicidio dovuto alla disperazione.
Alla fine del 2012 la famiglia ha chiesto alla procura di Brindisi la riapertura del processo.
Nelle sentenze di assoluzione, passate in giudicato ormai da più di vent’anni, è scritto che si sarebbe data fuoco da sola, un suicidio quindi, per sottrarsi ad un giro di prostituzione minorile. Muove denunce e accertamenti medico-legali, a distanza di anni, hanno stabilito che fu arsa viva, fu uccisa. Le sue mani coprivano il volto mentre le fiamme le consumavano il corpo. Non voleva vedere, cercava di difendersi. Qualcuno l’ha uccisa compiendo un feroce piano.
La Procura di Bari, dopo la pronuncia della Cassazione che le assegnava la competenza ad indagare sul caso, ha riaperto le indagini. L’ipotesi di reato, al momento a carico di ignoti, è di omicidio volontario aggravato.
I due soggetti che all’epoca furono individuati come i presunti assassini dall’allora pm Nicola Magrone sono stati assolti, quindi non potranno più essere processati per il delitto. Le inquirenti baresi Simona Filoni e Bruna Manganelli alle quali è stato affidato il nuovo fascicolo, puntano quindi ad accertare se esistano eventuali corresponsabili, se cioè sia ancora possibile ricostruire il contesto che portò a quella tragica fine e ipotizzare nuove responsabilità.
Trasmettendo le carte a Bari, la Cassazione aveva accolto il ricorso della sorella della vittima, Giacomina Martinelli, contro l’archiviazione disposta dalla magistratura di Brindisi che nel 2012 aveva riaperto le indagini. I pm brindisini arrivarono alla conclusione che Palmina fu arsa viva, che dunque non si trattò di suicidio, senza riuscire tuttavia a identificare i responsabili dell’omicidio.
Dopo una prima fase, durata mesi, di studio delle carte e della documentazione contenute nei precedenti fascicoli sulla morte di Palmina Martinelli e custoditi in parte negli archivi giudiziari baresi e in parte a Brindisi, i magistrati di Bari ritengono ora che ci siano margini di approfondimento per l’identificazione di eventuali corresponsabili nel delitto. L’obiettivo della Procura di Bari è allargare l’orizzonte all’intero contesto, anche familiare, che portò alla morte dell’adolescente, impregnato – stando agli atti – di degrado e illegalità.
Palmina aveva rifiutato di seguire la strada a cui volevano costringerla i parenti, quella della prostituzione. Poco più che bambina aveva progettato la fuga da quella casa dove erano cresciuti i suoi 10 fratelli e dove era infelice, tra il padre alcolista e il cognato violento, dove la picchiavano e volevano imporle di diventare una baby-prostituta. Aveva avuto il coraggio di decidere di andare via, pur di non vendere il suo corpo. L’11 novembre 1981, dopo aver già tentato la fuga ed essere stata ricondotta a casa a suon di schiaffi dal padre e dal cognato Cesare Ciaccia, marito della sorella maggiore Tommasina, aveva buttato giù una lettera per dire addio alla sua mamma. Ma quel giorno vennero a prenderla in casa il cognato Enrico, compagno della sorella Franca, e il fratellastro di questi, Giovanni, 20 anni, quello di cui la piccola Palmina era innamorata. Volevano trascinarla via con loro, sulla strada, ma Palmina si oppose. La cosparsero di alcol e le diedero fuoco con un cerino. La ragazzina corse in bagno per spegnere le fiamme sotto la doccia, ma il destino volle che l’acqua quel pomeriggio mancasse. E proprio sul piatto della doccia la soccorse suo fratello.
Enrico Bernardo era il comapagno di Franca, una delle sorelle di Palmina, marchiata a sangue con il nome del compagno su una coscia, come a identificare una proprietà e gettata sulla strada a prostituirsi con la minaccia di uccidere la loro figlioletta appena nata. In quel clima, Palmina, che a quattordici anni era fresca, bella e vergine, era un boccone più che appetibile per il “business di famiglia”. La piccola si era invaghita di Giovanni Costantini, quello che poi avrebbe denunciato come suo aguzzino, all’epoca militare in servizio a Mestre al quale scriveva ingenue lettere d’amore, sognando il matrimonio. Ben presto, però, aveva capito quale sorte avesse in mente per lei. A novembre, Palmina smise di andare a scuola e quando le compagne di classe le chiesero il motivo, rispose che in famiglia volevano farle fare “la vita”.“Ma io non la farò mai”, aveva precisato con fermezza. Con l’amica Maria Apruzzese, ospite in un istituto, aveva progettato di fuggire di lì a poco, ma il giorno in cui avrebbero dovuto pianificare la fuga non si presentò. Il giorno seguente anò incontro a quel tragico destino.
Il processo ebbe inizio due anni dopo i fatti, nel 1983. Fondamentale fu l’esame della lettera che la piccola lasciò a sua madre, che però fu letta come quella di una suicida. Quel “addio per sempre” scritto in maiuscolo alla fine del foglio venne interpretato come il saluto definitivo. Anche le invocazioni della fine sul letto di morte, anziché lo sfogo disperato di chi non sopporta più le atroci sofferenze patite, venne considerata l’ennesima prova di una volontà suicida.
Dopo quella dolorosa sentenza è la sorella Giacomina a pretendere che venga riconosciuto il delitto. I consulenti dei suoi legali ripartono dalla famosa missiva lasciata dalla piccola alla madre. Quel ‘Per sempre” finale, che i magistrati lessero come suggello della lettera di un suicida, viene analizzato meglio e viene riscontrato che la sola “P” era stata tracciata, a guisa di firma, da Palmina. Le altre lettere erano state aggiunte con un’altra calligrafia, in un secondo momento, per simulare il suicidio, da una mano che viene ritenuta compatibile con quella del Costantini. Tuttavia i due fratellastri denunciati dalla vittima non possono essere indagati né processati una seconda volta. Decisiva potrebbe essere la perizia realizzata dall’anatomopatologo, Vittorio Pesce Delfino, che ricostruisce come, quando le fiamme sono divampate, le mani della piccola si trovassero sul suo volto. Impossibile, dunque, che siano state quelle mani a innescare l’incendio. L’ultima speranza per la sorella di Palmina, è il rigetto della richiesta di archiviazione del caso da parte della corte di Cassazione.
Solo riconoscendo la morta di Palmina come un omicidio e non suicidio potrebbero essere indagati eventuali complici che abbiano agito in concorso con gli assassini e restituito a Palmina quello per si è battuta con coraggio fino alla morte: la sua integrità morale.
Quello che resta di Palmira, oggi, a Fasano è “Largo Palmina Martinelli (1967 – 1981) giovane vittima di crudele violenza”.