Torre Annunziata (Napoli), 23 novembre 1996 – Il 35enne Raffaele Pastore, piccolo commerciante all’ingrosso di prodotti alimentari, intorno alle 18.30, viene ucciso nel suo negozio di mangimi, in via Carminiello, raggiunto da otto colpi di arma da fuoco da due uomini con il volto coperto da passamontagna, perché si era rifiutato di pagare il pizzo ed aveva denunciato i suoi taglieggiatori. Con lui c’è anche la mamma, Antonietta Auricchio di 66 anni, che rimane ferita ed assiste, impotente, alla morte del figlio.
I due malviventi scappano senza lasciare alcuna traccia dopo aver compiuto il loro piano criminale.
La vittima precedentemente aveva subito continue minacce senza mai cedere e senza mai arrivare a denunciare, fino al giorno in cui un esponente del clan camorristico dei Gionta lo minacciò pesantemente.
Lo stesso chiese solidarietà ad altri commercianti, ma nessuno gli fu vicino. Di fronte all’ultimatum il commerciante si rivolse alla polizia. Grazie alle sue indicazioni fu arrestato Filippo Gallo, di 32 anni.
Raffaele Pastore sapeva che la sua testimonianza era uno “sgarro” alla malavita. Infatti, temeva per la sua vita. Così richiese ed ottenne il porto d’armi per difesa personale, ma l’arma che comprò non la portava mai con sé, non aveva il coraggio neanche di pensare di doverla usare. Per questo era disarmato quando i sicari entrarono nel suo negozio per ucciderlo.
Sposato con due figli, uno di 2 e uno di 7 anni, la vita di Raffaele fu trucidata dalla pioggia di colpi di pistola che due uomini col volto coperto iniziano a sparare.
Raffaele, colpito gravemente, viene subito trasportato in ospedale, ma non ce la farà.
Il calvario di Raffaele iniziò due anni prima, quando gli fu consegnato questo ultimatum: “Se vuoi stare tranquillo devi darci 50 milioni”, ma Raffaele non volle piegarsi. A Raffaele, la storia che dei malavitosi dovessero arricchirsi con i proventi che derivavano dalle sue oneste fatiche, proprio non andava giù.
E pagò con la vita questo suo dissenso. “Non voleva essere un eroe”, dichiarò un parente il giorno dopo la morte ai giornali, “voleva soltanto vivere una vita normale, da cittadino e non da vittima”. Ma forse alla camorra quella normalità faceva paura. Forse era più facile silenziare con gli spari la voce di “quel ragazzo come tanti”, di quel “brav’uomo che credeva in quello che faceva” (come lo definì un anonimo collega), che non si sarebbe mai piegato a far “vagnari un pizzu”, far bagnare il becco nella sua attività.
Raffaele era solo un piccolo commerciante, ma ha avuto il coraggio e la volontà di riscatto necessari per ribellarsi alla malavita. Non è riuscito a farcela perché era solo. Perché gli altri commercianti, a cui aveva chiesto aiuto, erano intrappolati, per paura, nell’indifferenza e nell’omertà.