Il Salento è una terra incredibile. Piena di colori e contraddizioni, così vicini, per certi versi, a Napoli e, al contempo distanti. Non solo da Napoli. Probabilmente, in ogni città, paese, periferia, quartiere, rione ed angolo di strada in odore di mafia, esiste “il punto di non ritorno”. Ovvero, quel luogo materialmente irrilevabile, eppure realmente presente, dove lo Stato, “il nostro Stato”, smette di esistere. In quel “punto di non ritorno” comandano altri capi, regnano altre regole, viene venerato perfino un altro Dio, sconosciuto a tutte le altre religioni del mondo. A Ponticelli, il mio quartiere, situato nella periferia orientale di Napoli, quel punto di non ritorno crea una cartina geografica ben definita.
Quel punto di non ritorno, a Ponticelli, ha degli indirizzi e tanti nomi, accomunati dalla stessa anima: Rione Conocal, Lotto Zero, Bipiani, Rione De Gasperi, le case di Topolino, Lotto 10. Spostandosi ancora tra Barra e San Giovanni a Teduccio, gli altri due quartieri che insieme a Ponticelli formano la VI Municipalità di Napoli, la più estesa e la più densamente popolata, ci sono altri punti di non ritorno: Rione Villa, Rione Bisignano, il Bronx.
A Casarano, cittadina del Salento in cui vive e di cui racconta la mia amica e collega Marilù Mastrogiovanni, “il punto di non ritorno” assume una dimensione completamente diversa: non stanzia in un posto preciso, fluttua nell’aria, servendosi di tentacoli invisibili, ma appiccicosi, capaci di attecchire in un modo più inconsapevole e quindi più pericoloso, perché è più difficile da riconoscere e non tutti sanno riconoscerlo, principalmente perché non vogliono conoscere. Così accade che la mia amica Marilù che fa un lavoro pericolosissimo ,perché da sempre scrive per far conoscere, in modo che la gente possa imparare a riconoscere, è stata più volte minacciata. In tanti modi. Minacce visibili e invisibili, dettate proprio dalle regole e dal credo che, in quella terra, ha radicato quel punto di non ritorno.
Dalle mie parti si spara, si usa la violenza, in tutte le sue versioni, fisica, verbale, ma anche quella sprigionata dagli sguardi pieni di odio, più espliciti delle “stese” con i Kalashnikov. A Casarano le minacce vengono esternate attraverso manifesti volti a sbeffeggiare il lavoro di Marilù e/o inibirlo.
Marilù, all’indomani della marcia della legalità che ha tenuto banco lo scorso 21 marzo nella sua Casarano, mi ho fatto perdere il treno, perché voleva fortemente che prima di tornare a Napoli, vedessi Gallipoli, il castello e il porto e bevessi il caffè in ghiaccio con latte di mandorla sotto la fontana greca.
Davanti a quell’attimo caffè, ci è venuta voglia di accendere il registratore per registrare una chiacchierata tra giornaliste minacciate. Ecco cosa ci siamo dette:
Marilù Mastrogiovanni: Luciana da dove iniziamo? Siamo a Gallipoli, stai per partire…
Luciana Esposito: Sto per tornare a Napoli dopo due giorni trascorsi nella tua terra. Sono stati due giorni intensi, pieni di emozioni e di testimonianze che non mi aspettavo di raccogliere. Ho toccato con mano quello che finora ho sempre e solo letto. Ho avuto modo di raccogliere in maniera diretta le testimonianze più utili a ricostruire le dinamiche che tu racconti ormai da tempo.
- M.: Io so che hai intervistato il sindaco e farai un pezzo a parte su questo, pubblicherai l’intervista. Hai parlato con tante persone, con le ragazze e i ragazzi della Consulta giovanile, che hanno organizzato gli incontri, con i volontari di Libera, con i volontari di CittadinanzAttiva, con Don Antonio Coluccia, che ha lamentato una grave assenza “istituzionale”, quella della Chiesa, perché lui è un po’ fuori dalle righe, no?
- E.: Beh certo, un po’tanto.
- M.: E secondo te pesa quest’assenza della Chiesa in una manifestazione così?
- E.: Sì, sicuramente sì perché in tutti gli ambiti e sotto ogni punto di vista il silenzio è consenso, quindi schierarsi anche fisicamente, vedere qualche tonaca in più, che soprattutto il cittadino di Casarano, il cittadino del Salento può incontrare nella vita quotidiana… perché poi Don Antonio ha portato una testimonianza bella, forte, nitida, però è radicato in un’altra realtà, seppure è originario di questo territorio. Invece la presenza del prete che puoi incontrare ogni giorno ti può dare anche quella speranza di continuità, perché molte volte, in molte circostanze il prete è anche una forma di introduzione alla conversione. Ci è capitato tante volte che attraverso la conversione persone che erano testimoni oculari di fatti o di vicende poi sono arrivati a collaborare con la giustizia, quindi la figura del prete che spiega anche l’importanza della legalità, secondo me, è una figura non importante ma importantissima. Questo tipo d’assenza in un territorio del genere ovviamente pesa.
- M.: Tu ieri sera hai conosciuto con me Don Salvatore Leopizzi, che ha celebrato i funerali di Padovano, un nome che non si può dire qua a Gallipoli, noi siamo qui nel centro storico, il regno del clan Padovano. Quello fu un episodio spartiacque nella storia della criminalità, della Sacra Corona, perché al funerale fu dichiarato da molti commercianti il lutto cittadino: abbassarono le saracinesche, affissero i cartelli con “lutto” e ci furono due minuti di silenzio sul sagrato della chiesa. Quanto è importante che la Chiesa denunci questo tipo di simbologie mafiose di consenso e che non le permetta? Un prete che fa un’omelia a un mafioso ucciso, anche se ha i toni altisimi, va su temi alti, universali. Già dire l’omelia è o non è connivenza, secondo te?
- E.: Assolutamente. Io dico quello che succede dalle nostre parti molto spesso, quando vengono celebrati i funerali di vittime innocenti della criminalità. La parola “camorra” non si pronuncia mai, sembra quasi che questi ragazzi muoiano perché un meteorite li fracassa al suolo. Molte volte, soprattutto di recente, mi è capitato di vedere addirittura la figura del guardaspalle del boss dietro l’altare, alle spalle del prete, per sorvegliare, non solo per troneggiare sulla figura della Chiesa, ma anche per controllare chi c’è, chi non c’è e che tutto vada come deve andare. C’è un controllo molto concentrato, perché da un lato si riconosce l’importanza, il valore della Chiesa, dall’altro c’è da sempre questo desiderio di utilizzare il potere e l’immagine divina per creare questo genere di affiliazione. Quando la Chiesa si schiera in maniera diretta o indiretta dalla parte della mafia, altro non fa che rafforzarne e consolidarne il potere, pure perché va ad attecchire su quella frangia di popolazione che forse non fa associazionismo, non fa cittadinanza attiva ma frequenta solo quel tipo di contesto, quindi sembra quasi che il messaggio della mafia passi per lecito.
- M.: A Casarano sono stati celebrati i funerali del boss Augustino Potenza. Ovviamente c’è stata la messa con l’omelia, la Chiesa, il vescovo non ha stigmatizzato il fatto che sia stata data la benedizione a…
- E.: La meritava? Ma è stato giustiziato, è morto in un agguato e hanno autorizzato i funerali in chiesa?
- M.: Sì, è stato fatto il funerale in chiesa, un funerale come se fosse morto di vecchiaia, con la benedizione del prete e l’omelia, come se fosse normale. Poi c’è stato un grandissimo corteo, molto partecipato, e la Chiesa ufficiale non si è espressa su questo.
- E.: Questo è strano perché ad esempio a Napoli quando una persona affiliata o notoriamente pregiudicata viene uccisa in un agguato i funerali pubblici vengono assolutamente vietati. C’è la benedizione della salma con una piccola cerimonia religiosa direttamente al cimitero, ma il feretro non viene fatto entrare in chiesa nella maggior parte dei casi. Che si tratti di un boss acclamato o di un giovane emergente non viene mai permesso.
- M.: Quindi la Chiesa ha preso questa posizione forte nella tua terra, non fa entrare le salme dei mafiosi in chiesa.
- E.: No. Dovrebbe essere un fatto anche esteso a tutte le realtà in cui regna un sistema malavitoso, proprio per dare un segnale forte di distacco, per condannare. È vero che da un lato c’è chi dice che la Chiesa accoglie chiunque, che è diritto di chiunque ricevere l’estrema benedizione… è un’alternanza di correnti di pensiero agli antipodi, come succede un po’ in tutti i casi, però credo che se si vuole mettere un punto fermo a delle situazioni le posizioni devono essere sempre forti, e in questo caso la Chiesa dovrebbe decidere di scendere…
- M.: Di scegliere. E che emozioni ti hanno restituito ieri le ragazze e i ragazzi quando abbiamo parlato con loro all’auditorium comunale?
- E.: Per quanto mi avessero avvisato del fatto che il dibattito si sarebbe concluso con questo forte atto…
- M.: Ah sì, tu lo sapevi?
- E.: Sì, mi avevano detto che avrebbero cercato di dare anche a me e a Don Antonio uno dei post-it che avevano preparato, però noi stavamo troppo vicini a te. Però è stato bello ed è stato emozionante perché è la cosa più importante, che i giovani e soprattutto le persone che hanno capacità di articolare il pensiero, di elaborare pensieri compiuti in maniera indipendente, che sanno ancora non lasciarsi condizionare da questo troneggiare di correnti di pensiero un po’ antiche che forse hanno irretito più la parte anziana della cittadinanza, ma loro ancora sanno ribellarsi e sanno opporsi: è una cosa sempre bella da documentare. È bello che succeda nella tua terra perché è difficilissimo attirare i consensi, essere profeta in patria oggi è una delle cose più difficili di questo mondo, ed è importante che loro, la parte sana, buona e attiva della cittadinanza stia dalla tua parte. Loro sono straordinari, hanno una capacità di esternare i pensieri ma anche di fare domande che a loro sembrano banali, ma che in realtà portano a delle riflessioni che credo siano state costruttive per loro e per noi. Tua figlia mi raccontava che sentiva i ragazzi uscire estasiati, che dicevano “Che bello, che belle cose ci hanno detto”, e penso che questa sia la cosa più importante per chi fa questo lavoro.
- M.: Ci hanno fatto tante domande, ma qual è stata quella che ti è rimasta più nel cuore o quella più difficile?
- E.: L’ultima, quando mi hanno chiesto se avevo mai pensato di mollare per far vincere la paura e quando era successo, perché effettivamente è una cosa che è successa di recente, qualche giorno fa, e mi sono seriamente interrogata su quello che stavo facendo. Mi hanno indirettamente aiutato, perché poi la spinta più importante per continuare ad andare avanti ti arriva proprio da queste situazioni così energiche, così vive, così belle non solo da vivere ma anche da documentare. Io tornerò a casa che ho veramente tante, tante cose da dire, e che vorrò raccontare.
- M.: Quindi questa spinta a continuare ti arriva da qui, da Casarano?
- E.: Assolutamente sì.
- M.: Quindi questi incontri creano scintille no? È importante creare rete?
- E.: Assolutamente sì, e questo lo dico anche a te, a volte prendere le distanze dalla realtà che si racconta, per proiettarsi in un’altra realtà, anche per avere un metro valutativo diverso di confronto e per guardare la propria realtà da una prospettiva diversa può aiutare tanto. Io tornerò a Napoli arricchita, non solo dall’esperienza salentina, ma anche e soprattutto ho la possibilità di fare tesoro di quello che ho imparato qui e tradurlo per la lingua napoletana, radicarlo in quelle che sono le esperienze che vivo nel quotidiano. Questo è sempre bello ed è importante quando succede.
- M.: Io verrò sicuramente a documentare la tua realtà, Luciana, e volevo chiederti: tu come la vivi la tua quotidianità di giornalista che è stata picchiata, che adesso deve affrontare un processo nel quale si è costituita parte civile la Federazione Nazionale, la FNSI? Come vivi la quotidianità, gli sguardi, l’isolamento, la paura di essere aggredita? Come ti muovi? Immagino che sia complicatissimo…
- E.: Beh certo, la vita mi è cambiata sicuramente. Ci sono zone rosse, così le chiamiamo con le persone che in qualche modo cercano di tutelare la mia incolumità, e sono quelle nelle quali io non posso proprio addentrarmi. Sono quelle, paradossalmente, più vicine alla mia abitazione, quindi questo mi rende gli spostamenti molto difficili. L’ostilità delle persone c’è, in alcune situazioni è forte, però è anche vero che in tanti altri contesti mi cercano con insistenza, soprattutto quando c’è da raccontare situazioni di degrado, di disagio.
- M.: Ti cercano le persone?
- E.: Sì. Nel rione De Gasperi, ad esempio, che è stata per oltre 30 anni la roccaforte di uno dei clan più efferati della storia della camorra, i Sarno, dopo la scissione del clan, che ha portato al pentimento di diverse figure simbolo, di 4 o 5 boss e di diversi affiliati, in quel rione è rimasto solo il degrado, un sacco di gente disperata che chiede di rivendicare il proprio diritto ad un’abitazione più dignitosa. Io ho raccolto questo desiderio e li sto aiutando in qualche modo, documentando quello che è rimasto in quel posto. È un fatto che mi onora perché quando si sono trovati davanti alla solita protesta violenta, incendiamo i cassonetti, blocchiamo le strade, facciamo casino, andiamo a palazzo San Giacomo e rompiamo tutto o chiamiamo la giornalista, hanno scelto di affidarsi a questa strada. La mia unica condizione è stata proprio: non devono esserci episodi di violenza perché altrimenti vi abbandono. Finora sono stati coerenti.
- M.: Quindi hai una presa concreta, tu, sulla vita delle persone?
- E.: In qualche caso sì, il mio esempio qualcosa di buono lo ha lasciato. È pur vero che molte persone non hanno avuto la forza di testimoniare quello che hanno visto quando io sono stata aggredita, allora subentra un principio di compensazione, sentono il bisogno di fare in modo che quel sacrificio non passi inosservato, incompiuto, e cercano di starmi vicino in maniera diversa. C’è un gruppo di cittadini, c’è il comitato dei cittadini di Ponticelli che in realtà sono tante madri adottive che mi hanno adottata. Il pomeriggio molto spesso prendiamo il caffè insieme e mi raccontano i problemi del territorio, mi raccomandano di fare attenzione, di non andare nei posti in cui c’è troppo marasma, e soprattutto mi chiedono di non parlare di camorra ma dei problemi della cittadinanza, senza addentrarmi, proprio per un senso forte di protezione. Il 21 dicembre è stato l’anniversario della mia aggressione, loro hanno organizzato questa recita in una scuola e mi hanno invitato. Sono stata con i bambini, penso sia stato l’unico coro al mondo , quello di Ponticelli, che ha cantato anche in cinese per favorire l’integrazione dei compagni di classe. È stata una cosa molto, molto bella. Dopo abbiamo fatto una passeggiata simbolica sul corso di Ponticelli, con loro che mi scortavano: quella è una zona molto osservata da chi comanda oggi nel quartiere. Simbolicamente hanno voluto far capire che ci sono loro al mio fianco e che non sono più sola, quindi non sono così isolata; sono isolata da una parte, da quella che vive male il mio operato sul territorio, però sul quartiere ci sono tanti segnali di vicinanza. I ragazzi del Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania intorno a me stanno facendo un lavoro eccezionale, insieme con la Federazione, mi permettono di presenziare tutte le volte che posso raccontare la mia storia: molte volte sono io che non ho voglia di farlo ed è Giulietti che mi obbliga a parlare, diciamolo questo. Però è anche un modo per farmi sentire che loro sono al mio fianco, e questo penso che tu puoi capirlo bene, è una cosa molto importante.
- M.: Io lo capisco benissimo, è una cosa importante, ma è importante far uscire la funzione sociale che hanno questi colleghi, colleghi come te, nei luoghi di frontiera. Tu hai partecipato al Forum delle Giornaliste del Mediterraneo, che ha questo taglio: giornaliste sui fronti , sul fronte, e poi alla fine hai parlato tu tra le grandi inviate di guerra.
- E.: Perché sono un’inviata di guerra!
- M.: Perché tu sei, di fatto, un’inviata di guerra. La tua è una fortissima valenza etica: il giornalismo lo è, come mestiere, ha una funzione sociale forte, ma fatto così, in quei luoghi, è davvero un mestiere da tutelare, da mettere sotto tutela. E questo era il titolo che abbiamo scelto per dialogare con i ragazzi, “La libertà d’informazione come presidio di legalità”. Questo tipo di giornalismo, questo tipo di piccoli organi d’informazione che stanno sui territori sono dei presidi, hanno un contatto diretto con le persone: è per questo che danno fastidio, alla fine.
- E.: Sì, perché la verità in tutte le sue forme, in tutte le sue sfumature è sempre scomoda, lo diceva ieri il sindaco di Casarano in quest’intervista shock che mi ha concesso.
- M.: Non anticipiamo nulla qui, tanto ti leggeremo.
- E.: No, no, leggeremo, però lui faceva un passaggio sulla verità, che non ho registrato, quindi non figurerà nell’intervista. Dopo, quando abbiamo continuato la nostra chiacchiera in maniera più informale, diceva che non esiste una verità assoluta, perché se guardiamo la tazzina del caffè tu la vedi in un modo, io la vedo in un altro, quindi a seconda dell’occhio dell’osservatore la verità cambia, secondo il suo metro valutativo. Invece io penso che quando una verità è raccontata bene diventa scomoda. La minaccia forse è anche sintomatica del fatto che stai facendo bene il tuo lavoro, questo a me è chiaro. Quando succede vuol dire che effettivamente hai raccontato una verità. Se ti arriva una querela vuol dire che sei stata bravissima, vuol dire che hai creato l’effetto panico in maniera incondizionata e assoluta. È difficile perché poi ti conferisce un carico di responsabilità che tutte le volte si ripete, perché poi cliccare “pubblica” diventa sempre un atto di responsabilità enorme.
- M.: È un salto nel vuoto, quando clicchi “pubblica” ti senti…
- E.: Lo faccio? Non lo faccio? Me lo leggo un’altra volta? Va beh, forse questo lo tolgo, però poi se lo tolgo non si capisce bene quello che voglio dire, va bene, questa la lascio… fai il segno della croce, guardi in cielo, “San Gennaro mi raccomando” e bam! lo pubblichi, questo è alla fine.
- M.: Quindi che facciamo, Luciana, lo pubblichiamo?
- E.: Sì, tutta la vita!