Napoli, 14 aprile 1981 – Vicedirettore dal 1976 al 1981 del Carcere di Poggioreale, Giuseppe Salvia all’età di 38 anni, viene trucidato in un barbaro agguato. Per quell’omicidio Raffaele Cutolo, capo incontrastato della “Nuova camorra organizzata”, fu condannato all’ergastolo. A scatenare l’ira del boss fu l’atteggiamento che lo stesso Salvia ebbe al ritorno di Cutolo il 7 novembre del 1980 in cella a Poggioreale, allorquando al rientro da un’udienza dibattimentale, pretese che il boss fosse perquisito come da regolamento carcerario.
Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, è tra i pochi ad aver affrontato faccia a faccia il boss Raffaele Cutolo. Lo ha fatto da servitore dello Stato e per questo ha dato la vita.
Erano i giorni successivi al terremoto e a Poggioreale si era scatenata un’autentica carneficina tra opposte fazioni di camorristi, una delle pagine più scure del penitenziario napoletano e dell’intera storia della camorra in città.
«Dottò, Cutolo non si vuole far perquisire. Cosa dobbiamo fare? Sa, noi abbiamo famiglia…». Giuseppe Salvia, che del carcere di Poggioreale era il vicedirettore, non ci pensò due volte. Uscì dal suo ufficio e fece ciò che prevedeva il regolamento: la perquisizione dei detenuti che rientravano in carcere dopo aver partecipato ad un’udienza processuale. Tra le facce incredule degli agenti di polizia del carcere, cominciò lui stesso la perquisizione del boss Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. Era il 7 novembre del 1980. Quel giorno Cutolo rientrava da una delle udienze sul processo alla Nuova Camorra Organizzata. Non si aspettava il gesto di Giuseppe Salvia. Per lui era una sorta di sfida. Quel gesto metteva in discussione la sua autorità di boss davanti a tutti. Cutolo ebbe anche un moto di stizza e cercò di dargli uno schiaffo. Giuseppe Salvia, che era vicedirettore del carcere di Poggioreale dal 1973, conosceva i codici non scritti della malavita. Lui che il carcere aveva tentato di renderlo anche più umano, sapeva bene che quella perquisizione poteva costargli cara. Era conscio dello spessore criminale di quel detenuto, ma sentiva forte il dovere di riaffermare il potere dello Stato.
E, infatti, quella perquisizione, sancì la sua condanna a morte.
Giuseppe sapeva bene a cosa andava incontro. Prima dell’agguato, l’uomo ricevette svariati tentativi di corruzione, soldi fatti trovare in ufficio e telefonate minatorie, ma lui, imperterrito, ha scelto la legalità e la fedeltà per lo Stato.
Lo stesso Stato che lo ha lasciato solo. Salvia chiese anche al Ministero di essere trasferito perché ormai aveva capito bene che era diventato un personaggio scomodo. Il trasferimento arrivò qualche giorno dopo l’uccisione.
Il suo nome finì anche sul “libro nero” delle Brigate Rosse. Questo libro venne rinvenuto in un blitz dei carabinieri e vicino al suo nome c’era il modello della sua auto con la targa, una Fiat 128 di colore blu. L’auto venne fatta sparire e fu sostituita da una Ritmo. La sua sentenza di morte, però, non tardò ad essere eseguita. Giuseppe Salvia fu ammazzato il 14 aprile del 1981 da un commando di sei uomini legati a Cutolo, sulla tangenziale di Napoli, allo svincolo dell’Arenella, mentre tornava a casa. Quel giorno il vicedirettore esce alle quattordici dal carcere. Un’ora prima del suo consueto fine turno. Sale sulla sua Fiat Ritmo e si avvia verso casa, nel quartiere dell’Arenella, dove lo sta aspettando sua moglie, Giuseppina Troianiello, trentatré anni, che aveva sposato nel luglio del 1975. Dal loro matrimonio erano nati due bambini, Antonino e Claudio, che all’epoca avevano cinque e tre anni. A casa, Giuseppe Salvia non ci arriverà mai. Fuori dal carcere i killer aspettano solo che parta. Lo seguono con due auto. Quella su cui sono i killer che lo uccideranno è una Giulietta. Giuseppe Salvia si accorge di quell’auto che lo segue e sulla tangenziale, vicino al viadotto dell’uscita dell’Arenella, improvvisa una retromarcia cercando di tamponare la Giulietta. Ma la manovra per bloccarli non riesce. Scende dall’auto e tenta di scappare. Sarà inutile. I killer scendono e sparano. Il vicedirettore di Poggioreale muore sul colpo proprio al centro delle tre corsie della tangenziale. L’auto dei killer verrà ritrovata poco dopo in una strada nella zona del Vomero. La moglie, Pina, insegnante di educazione fisica nelle scuole superiori, ai funerali dirà: «Mi hanno tolto tutto. E lo hanno tolto anche ai miei figli». Ai due figli, Pina non dirà subito la verità. Dirà che il padre aveva avuto un incidente. Gli parlerà dell’omicidio solo dopo alcuni anni. Quando saranno più grandicelli e in grado di capire che tipo di persona era il loro papà. «Dovete essere fieri di lui, perché credeva nel suo lavoro ed è morto perché era dalla parte della legalità».
Al suo funerale arriveranno sessantotto corone di fiori. Le invieranno i detenuti come segno di ringraziamento nei confronti di una persona che anche in una istituzione così violenta come il carcere non aveva perso la sua umanità. Giuseppe Salvia considerava i detenuti delle persone come tutti gli altri e non carne da macello. Per l’omicidio del vicedirettore del carcere di Poggioreale vengono condannati all’ergastolo Raffaele Cutolo e la sorella Rosetta, insieme con altri due imputati, Carmine Argentato e Mario Iafulli. I giudici, inoltre, condanneranno a ventiquattro anni di reclusione Mario Incarnato, a cui vengono concesse le attenuanti generiche per la collaborazione fornita agli inquirenti, e a quattordici anni Roberto Cutolo, figlio del boss di Ottaviano. A Giuseppe Salvia è stata conferita dallo Stato la medaglia d’oro al valore civile.