Bronte, 24 marzo 1994: Enrico Incognito era affiliato a un clan mafioso, ma aveva deciso di collaborare con la giustizia. Viene ucciso dal fratello Marcello, con la complicità dei genitori. In seguito al suo pentimento, era stato abbandonato dalla moglie.
Una telecamera che registrava le rivelazioni di Enrico, ha ripreso la scena del delitto. Tre colpi di pistola hanno bruscamente interrotto il video diario al quale un boss mafioso stava consegnando tutti i segreti della cosca. Quella stessa telecamera ha registrato la sequenza dell’omicidio svelando anche il volto dell’assassino.
“No, Marcello, non farlo”: queste le ultime parole gridate dalla vittima. Poi gli spari. E finita così la sfida di un “uomo del disonore”. Enrico Incognito, 30 anni, boss mafioso di Bronte viene così ucciso in una piccola mansarda trasformata in studio televisivo. Una scena da Gomorra che racchiude una sconcertante verità: a uccidere Enrico Incognito sarebbe stato il fratello Marcello di 29 anni. Al momento dell’omicidio nella stessa stanza c’era anche la madre, Luigina Maggi, 49 anni, che ha assistito all’ agguato. La donna viene pertanto accusata di concorso in omicidio: secondo gli inquirenti sapeva quel che si preparava per il figlio, ma non avrebbe fatto nulla per evitarlo. Mentre il padre, Salvatore Incognito, 49 anni, potrebbe aver preso parte all’agguato. Dei testimoni hanno riferito che subito dopo l’omicidio è scappato alla guida di un’automobile con al fianco il figlio Marcello. C’è poi un’altra persona finita in manette, Carmelo Meli, 49 anni, anch’ egli accusato di concorso in omicidio. Si tratta dell’inquilino che abita al secondo piano dello stesso stabile dove si è consumata la tragedia. Era l’unica persona della quale Enrico Incognito si fidasse ed è stato proprio lui a suonare alla porta della mansarda spianando la strada al fratello omicida. Enrico Incognito è stato ucciso perché’ aveva deciso di passare all’ altra sponda, rinnegando la mafia per diventare collaboratore di giustizia.
La mafia temeva e per questo ha fatto pressione sui familiari. Come dire: o lo ammazzate voi oppure noi vi uccideremo tutti.
E così, per evitare una sicura vendetta trasversale, madre, padre e fratello hanno preferito lavare in casa quella terribile macchia: “l’infamia” di avere un pentito in famiglia.
Incognito viveva da solo in una mansarda al terzo piano di uno stabile di via Giulio Cesare. Era agli arresti domiciliari ma, per suo conto, si era imposto delle ulteriori misure di sicurezza. Non si fidava di nessuno, diffidava persino dei familiari, soprattutto del fratello. L’ unica persona che non temeva era l’ inquilino del secondo piano, Carmelo Meli. Era lui a portargli da mangiare. L’ agguato scatta alle 14 di giovedì 24 marzo. A quell’ ora Incognito è in casa. Con lui ci sono anche la madre e altre tre persone rimaste senza nome.
A quanto pare, ha intenzione di acquistare una nuova telecamera e alcuni amici gli stanno spiegando il funzionamento del modello che intende comprare. Forse stanno solo effettuando una prova di registrazione, quando suonano alla porta. Come in una sorta di premonizione Enrico Incognito dice all’ amico, che sta dietro alla macchina da presa di continuare a riprendere. Lui controlla dallo spioncino e vede che si tratta di Carmelo Meli. Non ha alcuna esitazione e apre. Ma si tratta di un tranello: il killer scansa con uno spintone il Giuda che ha fatto da esca e poi spara due colpi in rapida successione. La telecamera resta accesa e continua a filmare. Dopo i primi due spari a bruciapelo, il fratello spara ancora una volta: il colpo di grazia alla testa. Quindi si precipita lungo le scale fino all’ uscita del palazzo. Ad attenderlo c’è il padre al volante di un’auto. In quel momento forse nessuno si è reso conto che la telecamera ha registrato tutta la sequenza dell’omicidio.
Sarebbe stata una telefonata anonima, giunta all’ indomani dell’omicidio, a mettere sulla pista giusta gli inquirenti: “Andate a vedere in quelle videocassette. Ci potrebbe essere la verità sull’omicidio”.
Enrico Incognito aveva incominciato il suo insolito pentimento da almeno un mese. Lui, che per anni era stato il capo della cosca di Bronte, voleva farla finita e raccontare tutti i segreti. Accusato di associazione mafiosa ed estorsioni, nell’ 87 venne indicato anche come il mandante del fallito attentato dinamitardo contro il capitano dei carabinieri Giovanni Rapiti. Ma invece di rivolgersi ai giudici aveva preferito fare tutto da solo: una sorta di “video pentimento”. Probabilmente non si fidava dei magistrati, anzi li contestava. Il 27 gennaio scorso in un’aula del tribunale di Catania aveva cercato di darsi fuoco dichiarandosi una vittima della giustizia. Ecco perché’ aveva deciso di fare tutto in proprio. Si era messo a registrare cassette su cassette (ne sono state trovate più di dieci) e aveva anche cominciato a scrivere un lungo memoriale. Magari pensava di rivolgersi alla magistratura solo a lavoro finito, ma in un paesino come Bronte le notizie corrono veloci. Gli strani movimenti nella sua mansarda, il continuo acquisto di videocassette, avevano fatto scattare la sentenza di morte.