Continuano ad emergere dettagli e retroscena fin qui inediti, legati a quanto accadde nel Rione Sanità durante la notte in cui perse la vita Genny Cesarano.
Risvolti e tasselli che s’incastonano in un mosaico imbastito d’omertà e leggi dell’”Anti-Stato” e che al centro della scena colloca loro, gli amici di Genny, giovani, poco più che adolescenti, con le idee ben chiare e che sanno cosa fare e cosa dire in casi come questi.
Il desiderio di giustizia non è la priorità assoluta da perseguire, al cospetto della morte ingiusta di un amico, di un coetaneo. Non in un Rione dilaniato dalla camorra e dove le stese, gli agguati, gli atti intimidatori di matrice camorristica sono all’ordine del giorno.
Le leggi dell’Anti-Stato primeggiano su quelle dello Stato, vincendo il primo round di un braccio di ferro senza fine.
Su quella panchina, accanto al giovane che in quella variabile imprevedibile innescata da una raffica di proiettili esplosa all’improvviso, c’erano tante tipologie di ragazzi.
Un 23enne che la piazza due ore prima che il comando di fuoco facesse irruzione, animato dal presagio che, di lì a poco, potesse accadere qualcosa di pericoloso.
24 colpi d’arma da fuoco esposi da tre pistole impugnate da gregari del clan Lo Russo: dovevo essere una stesa, poteva essere una strage. Un 17enne ha perso la vita, tanti altri ragazzi potevano accasciarsi al suolo accanto a lui per non rialzarsi più. Eppure, la consapevolezza di essere miracolosamente scampati alla morte non ha indotto quei testimoni oculari ad agire da testimoni oculari.
Omertà, dimenticanze e reticenza: questo il copione che gli amici di Genny Cesarano hanno esibito al cospetto degli inquirenti. Una condotta che l’ex questore napoletano, Guido Marino, ha definito «spregevole».
Parliamo di Dario, Antonio, Giuseppe, Pasquale, Eddy, ma anche Fabiana, Vincenza e Martina. Voci diverse, stessa strategia, a leggere l’ordine di cattura a carico dei quattro presunti killer entrati in azione all’alba del sei settembre del 2015, all’esterno del pub El Pocho, a pochi passi dalla chiesa San Vincenzo alla Sanità: a sentire le intercettazioni ambientali, si capisce che hanno le idee chiare sulla matrice dell’omicidio di Genny, sullo scenario in cui è maturato e sulla provenienza da Miano degli otto killer entrati in azione quella mattina. Sanno anche che la stesa in cui è maturato il delitto del 17enne era solo una risposta a un agguato consumato ore prima per ordine del boss Piero Esposito, – successivamente ucciso – ma dinanzi agli inquirenti tacciono.
Non dicono granché a proposito della pista principale, ripetono frasi che sembrano studiate a tavolino, ma non offrono indicazioni che potrebbero rivelarsi preziose. E non è tutto. Non hanno solo l’obiettivo di non immischiarsi, ma provano tutti a proteggere l’identità di un loro amico, uno che stava nel loro gruppetto, che quella sera era probabilmente armato e che viene indicato solo con un soprannome.
Ragazzi incensurati, ma a conoscenza di una regola: indicare il nome del potenziale obiettivo, in quanto ritenuto di spessore criminali, significa indirizzare gli inquirenti nella pista giusta, quindi entrare nel vivo di un processo.
Un copione che non è servito a cambiare le sorti di un destino in qualche modo segnato per Raffaele Bacio Terracino, il 21enne arrestato su mandato del gip dalla Squadra mobile di Napoli per detenzione e porto abusivo di armi. L’indagine che lo riguarda è un filone di approfondimento per quanto accaduto alle 2 del mattino del 6 settembre 2015 che aveva messo in luce che nel gruppo di amici di Genny c’era anche un ragazzo con una pistola, il quale però non aveva risposto al fuoco del gruppo di affiliati al clan Lo Russo. All’identificazione di Terracino si è arrivati anche con intercettazioni ambientali, soprattutto nelle auto di amici che sono stati anche indagati per false informazioni fornite agli inquirenti.
È così che si vive – e si muore – nelle terre di camorra.