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“Quei bambini”: i figli della camorra, di cui tutti parlano, sparlano e straparlano

Luciana Esposito di Luciana Esposito
19 Gennaio, 2017
in In evidenza, News
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“Quei bambini”: i figli della camorra, di cui tutti parlano, sparlano e straparlano
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wp_ss_20161208_0111 “Se non ci stai dentro a certe cose, non puoi capire. Se nasci in una famiglia di macellai, quello è probabilmente il mestiere che impari. Per i nostri figli, il futuro è questo. Devono collaborare pure loro, perché lo facciamo per loro, per farli mangiare. Tanto, se li acchiappano, non gli fanno niente. Se non guadagniamo, loro non mangiano. Ai bambini che nascono nei posti perbene, le madri possono raccontare le favole. Noi li dobbiamo educare alla vita, subito. “Vita mia, morte tua”: prima lo imparano e meglio è.”

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Per capire come e perché un bambino arriva a delinquere, prima ancora d’imparare a camminare, è necessario partire da queste parole.

A pronunciarle è una “lady-camorra”, una di quelle che, in seguito alla carcerazione del marito, ha continuato a servire il clan.

È una delle donne arrestate lo scorso giugno, nell’ambito del maxi-blitz messo a segno nel Rione Conocal di Ponticelli e che portò allo smantellamento di una dozzina di piazze di spaccio.

La donna, madre di due figli, attualmente sta scontando la pena ai domiciliari, ma non mostra alcuna forma di redenzione o pentimento. Tornerà a delinquere e lo dichiara senza remore, perché sente di essere nel giusto.

Parla con rabbia, come se avesse subito un abuso di potere da parte dello Stato che ha “osato” entrare nel regno del clan D’Amico, lì dove comandano “i Fraulella”, per “rovinargli la festa” e mettere fine ad un business più che prolifero, quello che “dava da mangiare” a centinaia di famiglie: le piazze di spaccio, quelle imbastite dalle madri nelle retrovie e gestite dai figli. Ragazzini che smerciano droga a cielo aperto, tra i bambini che vanno in bicicletta o intenti a giocare. Bambini come loro che danno calci al pallone, mentre loro, “i figli della camorra”, stanno crescendo nella consapevolezza che i giochi, “’e pazzielle”, sono “roba da bambini”. Loro, invece, devono dimostrare di essere uomini, fin dalle prime battute, imparando a domare l’istinto che li porterebbe ad avvicinarsi a quel pallone per giocare insieme agli altri bambini, come tutti gli altri bambini. Rinnegare l’istinto e il diritto all’infanzia per non deludere le aspettative di una madre, oltre che di “mamma-camorra”.

Un cortocircuito che insorge in uno stralcio generazionale ben definito: bambini cresciuti privi del supporto di una figura maschile, per effetto di una generale e massiccia uscita di scena dei camorristi riconducibili ai principali cartelli criminali napoletani.

Uccisi o arrestati. Tumulati in una bara o relegati in una cella.

Eppure, quel feroce destino, non rappresenta un monito severo da impartire agli “orfani di camorra”.

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Le madri si sentono in dovere di personificare anche la figura paterna e per questo comandano e delinquono e, al contempo, consegnano quell’educazione ai loro figli. Questi ultimi, dal loro canto, veicolano la sofferenza che deriva dall’assenza del padre, in una direzione ben precisa che sfocia nell’odio e nella repulsione verso “il sistema” che lo ha reso “un martire”: il clan rivale o lo Stato, le forze dell’ordine. Alla base di tutto, c’è proprio questo malsano sentimento che fomenta il desiderio di rancorosa vendetta e rivalsa.

Dimostrare di essere un bravo camorrista rappresenta, per quei bambini, il modo più degno di onorare la memoria e la rispettabilità del padre. Un concetto incomprensibile per chi continua a vederli con gli occhi intrisi dei nostri principi e delle nostre regole. Quei bambini non crescono e vivono in un “rovesciamento del fronte”, bensì in un mondo incastonato nel nostro, ma contraddistinto da tutt’altro regole, non solo di natura etica, morale e comportamentale.

Il 20 giugno 2016, poche ore dopo il maxi-blitz nel Rione Conocal di Ponticelli, anche io, come molti altri giornalisti, mi recai sul posto per documentare la notizia.wp_20160622_14_43_50_pro

Mancavano una dozzina di minuti alle 15, era una giornata calda, ma cupa e il silenzio tombale che troneggiava sul rione veniva spezzato solo dal brusio delle tv accese nelle cucine degli appartamenti, unitamente al rumore delle stoviglie.

“Giornalista, oggi la regina del rione siete voi… oggi, comandate voi…” mi disse una delle “figure-simbolo” del Conocal, ironizzando sul fatto che, nei mesi precedenti, la mia presenza in quella sede era stata fortemente limitata da alcune “raccomandazioni” che avevo ricevuto da elementi di spicco del clan D’Amico.

“Potete andare dove volete… non c’è più niente”, mi diceva, mentre camminava e cercava, in qualche modo, di impormi la sua stessa direzione.

La mia intenzione era “buttare l’occhio” in tutte le zone del rione in cui giacevano le piazze di spaccio per appurare che fosse effettivamente “tutto finito”.

Il fatto che venissi tacitamente traghettata in una direzione opposta a quella in cui era posta in essere la piazza di spaccio più importante, quella che giaceva a ridosso della roccaforte del clan, non era un buon segno.

Non appena iniziai a percorrere la celeberrima via del Flauto Magico, intravidi una minuta sagoma che si avvicinava, a piccoli e lenti passi. Lui veniva verso di me, io andavo verso di lui. Calzoncini da calcio verdi, una t-shirt bianca e rossa, delle ingombranti scarpe da ginnastica nere ed arancioni, una corporatura esile: poteva sembrare un bambino qualunque.

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Giunto a una decina di metri di distanza da me, m’impone di fermarmi e di non avanzare oltre: “Non venire qua, altrimenti ti devo sparare nelle gambe. Non venire, non ci devi venire… non ci sta niente più qua, è finito tutto. Capito!? È finito tutto, non ci sta più niente.”

Continuò a ripetere quella frase almeno per un paio di minuti: “non ci sta niente più qua, è finito tutto. Capito!? È finito tutto, non ci sta più niente.”

Rimasi immobile e perplessa. Per quanto può sembrare assurdo, sapevo che se avessi fatto anche solo un passo in più, mi avrebbe sparato davvero, se quello era l’ordine che gli era stato impartito.

Arrivò un’automobile, dentro c’erano due ragazzi. Mentre continuava a ripetere quelle frasi, gli chiese: “che volete? 10!?… Erba o fumo?”

In una frazione di secondo si sfilò la dose dalla tasca, con una mano la consegnò ai clienti, con l’altra ritirò la banconota da infilare nell’altra tasca.

“Capito!? Non c’è più niente!”

“E quello che hai fatto ora?”, gli chiesi.

“E la mia famiglia non deve mangiare più?”, mi rispose.

Non erano ancora trascorse nemmeno 24 ore dal maxi-blitz che fece scattare le manette per 94 persone.

Per tutta l’estate, quel ragazzino che avrà avuto poco più di 8 anni, ha continuato a piantonare quella zona, ben visibile dalla strada.

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Quella piazza di spaccio, “grazie a quel bambino”, non è rimasta scoperta nemmeno per un’ora.

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