«Esco»: questo il testo dell’ultimo messaggio che Giulio Regeni ha scritto alla sua fidanzata. Erano le 19.41 del 25 gennaio 2016, il giovane ricercatore italiano non poteva sapere che quella sarebbe stata l’ultima parola che gli avrebbe rivolto, mentre stava raggiungendo a piedi la fermata della metropolitana più vicina a casa sua.
Giulio, dottorando italiano che oggi, 16 gennaio, avrebbe compiuto 29 anni, viveva in un appartamento nel quartiere Dokki di Giza, una città a una ventina di chilometri a sud-ovest del Cairo, la capitale dell’Egitto.
Quella sera Regeni stava andando alla festa di compleanno di un amico, organizzata vicino a piazza Tahir, la piazza più importante del Cairo. Regeni era stato a casa tutto il giorno, il clima era tutt’altro che tranquillo, come tutti i 25 gennaio dal 2011, il giorno in ci fu la caduta di Mubarak e la successiva ascesa dei Fratelli Musulmani. La situazione non era tranquilla: nelle ore precedenti la polizia egiziana aveva compiuto migliaia di perquisizioni per bloccare iniziative e proteste contro il governo del presidente Abdel Fattah al Sisi. Il quartiere un po’ periferico dove viveva Regeni, comunque, non ne era stato coinvolto.
Regeni scomparve quella sera stessa, nel tragitto da casa sua al posto dove era stata organizzata la festa con gli amici.
Secondo un’inchiesta di Reuters pubblicata il 21 aprile, Regeni fu prelevato dalla polizia egiziana vicino alla fermata della metro Nasser: fu portato a una stazione di polizia e fu tenuto lì per mezz’ora e poi trasferito in una struttura vicina gestita dalla Sicurezza Nazionale. Il governo egiziano ha sempre negato di averlo avuto in custodia quella sera, ma diverse indagini e inchieste giornalistiche successive hanno dato sempre più credito all’ipotesi di un coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani.
Regeni era un dottorando dell’Università di Cambridge che si trovava al Cairo per fare delle ricerche sui sindacati indipendenti dei venditori di strada, un tema politico molto delicato in Egitto. Da diverso tempo il regime di al Sisi cercava di limitare la presenza dei venditori di strada, una delle categorie che per prime si unirono alle proteste del 2011 contro Hosni Mubarak e che appoggiarono l’elezione di Mohammed Morsi, il presidente esponente dei Fratelli Musulmani destituito nel 2013 da un colpo di stato organizzato proprio da al Sisi. Il regime aveva anche infiltrato tra i venditori di strada dei suoi informatori, per captare qualsiasi volontà rivoluzionaria.
Regeni cominciò a studiare i venditori di strada adottando un approccio conosciuto come “ricerca partecipata”, un metodo che prevedeva il fatto di trascorrere molto tempo per strada. Alcune inchieste giornalistiche hanno mostrato che potrebbe essere stato questo metodo a causargli dei guai. L’11 dicembre 2015, quando Regeni partecipò a un incontro pubblico e autorizzato sui sindacati indipendenti. Quel giorno accaddero due cose: la prima è che Regeni fu impressionato dagli argomenti e dall’energia emersi dalla riunione, e ci scrisse un articolo con frasi abbastanza forti; la seconda è che durante l’incontro a un certo punto gli si avvicinò una donna con il velo, e lo fotografò. Regeni non era tra gli oratori e l’episodio lo mise in agitazione, raccontarono alcuni amici. Poi successe un’altra cosa. Nell’autunno 2015 Regeni aveva ottenuto un finanziamento di 10mila sterline da una fondazione britannica che si occupa di progetti di sviluppo. Era una somma di denaro che Regeni avrebbe potuto usare come sostegno per le ricerche del suo dottorato e come aiuto per le persone che stava studiando. Ne parlò con Mohamed Abdallah, uno dei leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, che però si mostrò interessato più ai soldi che al progetto in sé. Il 7 gennaio Abdallah denunciò Regeni alle autorità egiziane. Dopo la morte di Regeni, Abdallah raccontò a un giornale egiziano di averlo fatto per proteggere il suo paese, ma insistette nel dire di non essere una spia.
Prima che venisse ritrovato il corpo di Regeni passarono nove giorni. Il 3 febbraio un uomo alla guida di un furgone partito dal Cairo e diretto ad Alessandria forò all’altezza di Giza: si fermò sul lato della strada per cambiare la ruota e vide il corpo. I primi esami svolti in Egitto da un esperto forense mostrarono segni di tortura e fecero parlare di una “morte lenta”. Ma il vice-capo delle indagini a Giza ritrattò tutto e disse che probabilmente Regeni era morto in un incidente stradale. Questa ricostruzione fu smontata anche grazie all’autopsia eseguita in Italia. Il medico legale egiziano aveva già effettuato un’autopsia sul corpo di Regeni e aveva concluso che la morte era stata causata da un colpo in testa. L’esame italiano dimostrò invece che Regeni era stato colpito diverse volte sulla testa, non una sola, e che comunque la causa della morte era un’altra: la rottura del collo. Regeni aveva anche altri tagli, ematomi e abrasioni fatti in momenti diversi, mostrava delle fratture nelle mani e nei piedi e aveva i denti rotti. Era stato torturato, più di una volta: «Sembra che i suoi aguzzini avessero scolpito delle lettere nella sua carne, una pratica usata dalla polizia egiziana», ha scritto Stille.
Gli esami mostrarono che Regeni era morto tra le 10 di sera dell’1 febbraio e le dieci di sera del giorno successivo.
Fin dall’inizio delle indagini, gli italiani dovettero scontrarsi con la reticenza degli egiziani nel collaborare: l’autopsia non fu un caso isolato. Al team di investigatori italiani arrivati al Cairo per le indagini fu permesso per esempio un accesso molto limitato ai testimoni: potevano interrogarli, ma solo per pochi minuti e in presenza della polizia egiziana. Inoltre, gli investigatori egiziani ritardarono il sequestro del video girato dalle telecamere a circuito chiuso della stazione della metropolitana in cui Regeni aveva usato per l’ultima volta il suo cellulare. Quando si decisero fu troppo tardi: le registrazioni erano già state coperte con nuove immagini. Stille scrive che gli investigatori italiani dovettero in qualche modo fare da loro.
Gli investigatori italiani trovarono ampia collaborazione tra gli amici e la famiglia di Regeni e riuscirono a riempire dei pezzi di storia che la polizia egiziana si ostinava a non spiegare.
Dopo la diffusione dei risultati dell’autopsia italiana, l’Egitto abbandonò la tesi dell’incidente stradale – non più sostenibile, a quel punto – e cominciò a parlare in maniera molto fumosa dell’esistenza di una grande cospirazione. All’inizio di marzo un uomo di nome Mohammed Fawzy raccontò di avere visto Regeni il pomeriggio del giorno prima della sua scomparsa, mentre stava litigando furiosamente con un altro straniero vicino al consolato italiano al Cairo. Il 13 marzo Fawzy, durante un programma televisivo egiziano, sostenne che il governo italiano era a conoscenza dell’identità dell’assassino di Regeni, ma che stava nascondendo le prove. Disse anche che chiunque avesse ucciso Regeni voleva sabotare i rapporti commerciali tra Italia ed Egitto.
Tre giorni dopo Repubblica pubblicò un’intervista al presidente egiziano al Sisi, che diede ampio spazio alla teoria della cospirazione. Sisi accusò dell’omicidio i suoi nemici, quelli che secondo lui volevano isolare l’Egitto, colpire l’economia locale e interrompere la guerra del governo egiziano contro l’estremismo e il terrorismo. L’intervista giudicata troppo morbida e che non aveva affrontato quasi per niente la questione dei depistaggi compiuti da funzionari egiziani nelle indagini sulla morte di Regeni, mentre la testimonianza di Fawzy fu smontata nel giro di poco tempo. Gli investigatori italiani scoprirono che il pomeriggio del 24 gennaio Regeni era a casa: stava parlando con la sua fidanzata su Skype e insieme stavano guardando lo stesso film in streaming. I tabulati telefonici confermarono poi che Fawzy aveva mentito: non si trovava nella zona del consolato italiano, nell’ora in cui aveva sostenuto di avere visto Regeni litigare con un altro straniero. E anche la teoria della cospirazione fu in parte abbandonata.
Poi, il 24 marzo, insorge una nuova teoria. Il ministro degli Interni egiziano scrisse su Facebook che il caso era risolto: i colpevoli erano quattro membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». Il governo diffuse le foto del passaporto di Regeni, della sua carta d’identità italiana, di una carta di credito e del suo tesserino dell’Università di Cambridge, tutto materiale che secondo gli agenti era stato trovato in possesso del gruppo: dovevano essere prove per sostenere l’ultima teoria del governo, ma finirono per essere l’ennesimo elemento che sembrava mostrare un qualche tipo di coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane. Venne fuori che al momento della scomparsa di Regeni il capo della banda criminale si trovava a più di 100 chilometri dal luogo del sequestro. E c’erano altre cose che non tornavano: per esempio le autorità egiziane non seppero spiegare il motivo per cui dei criminali comuni avrebbero dovuto torturare Regeni per una settimana intera prima di ucciderlo.
Da allora gli investigatori italiani hanno continuato a indagare sulla morte di Regeni, ma senza arrivare a conclusioni definitive. Dopo che il governo ha abbandonato anche la teoria della banda criminale, la situazione si è un po’ bloccata. Ad aprile, Repubblica ha pubblicato delle email anonime secondo le quali il sequestro di Regeni fu ordinato da Khaled Shalabi, uno degli uomini che fanno parte del gruppo di investigatori egiziani che si sta occupando del caso. Regeni sarebbe stato consegnato ai servizi segreti interni egiziani, e poi trasferito ai servizi segreti militari, dai quali sarebbe stato ucciso. Diversi osservatori hanno però messo in dubbio la veridicità delle email, che sono parse un ennesimo tentativo di depistaggio. A settembre per la prima volta gli investigatori egiziani hanno ammesso che Regeni fu indagato dalla polizia egiziana: le indagini durarono solo tre giorni, hanno sostenuto gli egiziani, durante i quali non fu riscontrata «alcuna attività di interesse per la sicurezza nazionale».
Nel suo articolo sul Guardian, Stille dà credito alla teoria secondo la quale l’uccisione di Regeni è stata il risultato del contesto generale di paranoia in cui è immerso l’Egitto da quando Abdel Fattah al Sisi è diventato presidente. Il regime ha limitato le libertà personali e di stampa, la situazione dei diritti umani è notevolmente peggiorata e l’idea dell’esistenza di una qualche terribile cospirazione organizzata dall’esterno si è diffusa in molti strati della società egiziana. I casi di arresti di giornalisti e accademici, anche stranieri, erano già conosciuti prima della morte di Regeni e sembrano essere continuati anche dopo. Oggi la stragrande maggioranza degli osservatori e analisti pensa che dietro la morte di Regeni ci sia qualche esponente del regime egiziano.
Lo scorso dicembre giunge l’ennesima novità. «Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni e ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso»: lo afferma Mohamed Abdallah, il capo del sindacato autonomo degli ambulanti, in una dichiarazione all’Huffington Post, rilanciata dal settimanale L’Espresso, riferendosi a Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso in Egitto.
«Noi collaboriamo con il ministero degli Interni, solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro. Quando un poliziotto partecipa a un nostro matrimonio, ci dà più prestigio all’interno della nostra zona» ha aggiunto il Abdallah. «Io e Giulio ci siamo incontrati in tutto sei volte. Era un ragazzo straniero che faceva domande strane e stava con gli ambulanti per le strade, interrogandoli su questioni che riguardano la sicurezza nazionale. L’ultima volta che l’ho sentito al telefono è stato il 22 gennaio, ho registrato la chiamata e l’ho spedita agli Interni».
Il nome di Abdallah era emerso il 4 agosto scorso, quando fonti della sicurezza interna egiziana lo avevano indicato all’agenzia Reuters, come uomo vicino ai servizi. Il capo del sindacato, che era al centro delle ricerche del giovane italiano, aveva «visitato di frequente uno dei quartier generali» della sicurezza interna. Forse, aggiungevano, non era un vero e proprio collaboratore, ma una persona «che ha un mutuo beneficio ad avere un rapporto con gli apparati». I primi dubbi e sospetti sul ruolo di Abdallah risalgono già a marzo, quando un’amica del ricercatore, Hoda Kamel, dell’Egyptian Center for Economic and social rights, durante un’intervista a Repubblica, aveva parlato di una «vendetta» dell’uomo nei confronti di Regeni e affermato che il sindacato è «infiltrato dai servizi».
I tabulati di Abdallah sono stati chiesti e consegnati lo scorso maggio alla magistratura italiana che indaga sull’omicidio del ricercatore. Nell’articolo dell’Espresso, Abdallah spiega: «È illogico che un ricercatore straniero si occupi dei problemi degli ambulanti, se non lo fa il ministero degli Interni. Quando io l’ho segnalato ai servizi di sicurezza, facendo saltare la sua copertura, sarà stato ucciso dalle persone che lo hanno mandato qua».