Erano nascoste in un vano sottostante un’edicola votiva di Padre Pio, in via Portacarrese, nei Quartieri Spagnoli di Napoli, tre pistole semiautomatiche, tutte con matricola abrasa, due cariche e pronte all’uso, insieme a sette cartucce.
Un vaso copriva la cavità attraverso la quale le armi venivano nascoste ed estratte all’occorrenza: questo è quanto scoperto dai carabinieri che hanno provveduto a riportare ed inviare le armi rinvenute alla sezione Investigazioni scientifiche di Napoli. Saranno gli esami balistici ad accertare se si tratta delle armi usate per gli agguati e le “stese” messi a segno di recente nella zona.
Armi occultate in uno dei cosiddetti nascondigli impensabili e, al contempo, affidate alla “benevola protezione” del frate di Pietrelcina.
La camorra continua, quindi, a manifestare un forte senso di devozione ed attaccamento alla religione. Un legame, quello che congiunge la criminalità organizzata, – in tutte le sue versioni – alla fede religiosa, che annovera radici solide ed antiche.
Dalla Mafia, alla Sacra Corona Unita, senza tralasciare la ‘Ndrangheta e la camorra: boss ed affiliati, nelle più disparate forme, professano un forte attaccamento alla religione e alle icone sacre.
Un bisogno/necessità, quello di affidarsi alla fede, che nasce fin da quando i primi gruppi di camorristi hanno adottato una struttura organizzata. Da qui anche la necessità di condivisione degli stessi valori, degli stessi fini per consolidare il clan, perché spesso i vincoli familiari o di amicizia non bastano a far rispettare le regole. È necessaria anche una “sacralità”, utilizzata soprattutto in chiave esterna come una specie di codice morale.
Da tempo immemore, i boss e i killer legati all’antica forma ideologica e strutturale della camorra, prima di compiere un omicidio, erano soliti pregare. Così come, partecipare ai funerali delle persone uccise per espresso volere del clan, rappresenta un rituale fortemente radicato nell’atteggiamento camorristico che assume un significato ben preciso, oltre che altamente suggestivo e che si colloca nel mezzo tra un macabro desiderio di espiazione del peccato e un forte senso di piacere, insito nel veder godere i familiari delle vittime e i gregari del clan rivale.
L’infiltrazione camorristica nella gestione e nell’organizzazione di cerimonie religiose di stampo folcloristico/religioso, come le processioni, il rituale praticato dai “fujenti” della Madonna dell’arco e della festa dei Gigli, addirittura permette alla criminalità di subordinare la matrice religiosa al potere del clan: i celeberrimi e chiacchierati “inchini”, ovvero, il tributo che la statua religiosa rivolge al boss, allorquando sfila a ridosso della sua abitazione, ma anche la raccolta dei proventi, sorta nel segno delle festività religiose, in parte destinati agli stipendi delle famiglie dei carcerati, ragion per cui coloro che si occupano della “raccolta fondi” si definiscono “i figli della Madonna”, rimarcando, tra l’altro, il ruolo benevolo di Maria, che non manca di provvedere al sostentamento delle famiglie che si vedono “scippare” il capo-famiglia, “temporaneamente ospite dello Stato”.
Sin dalle origini, dunque, le mafie hanno saccheggiato la simbologia e la terminologia cattolica. Per un bisogno di legittimazione sociale e per solennizzare l’irrevocabilità dell’adesione al crimine.
Il rito d’ingresso nella comunità ecclesiale per i cattolici è rappresentata dal battesimo. Analogamente, l’ingresso di un giovane in una struttura mafiosa avviene attraverso una vera e propria cerimonia che si chiama anch’essa battesimo. Il giovane aspirante è presentato da un padrino che si assume tutte le responsabilità davanti al capo della famiglia mafiosa e ai suoi membri.
Il rituale di affiliazione alla ‘ndrangheta, viene descritto nei minimi particolari in un documento criptato, decifrato dalle forze di polizia di Roma.
“Come si riconosce un giovane d’onore? Con una stella d’oro in fronte, una croce da cavaliere sul petto e una palma d’oro in mano. E come mai avete queste belle cose che non si vedono? Perché le porto in carne, pelle e ossa”.
La continua reiterazione del 3, numero esoterico della Trimurti come della Trinità: i tre vecchi, le tre vele di cui si parla più avanti, i tre segni dell’affiliato alla cosca e i tre, mitici, fondatori della camorra (da cui la ‘ndrangheta ha attinto a piene mani): Osso, Malosso e Carcagnosso.
La ‘ndrangheta annovera una struttura gerarchica ben definita: picciotto, sgarrista, santista, vangelista, quartino, trequartino, padrino e capobastone. Nella ‘ndrangheta si entra per nascita o per battesimo e anche i figli dei boss, fino a 14 anni, sono “mezzi fuori e mezzi dentro”. “Per il battesimo ci vogliono cinque persone, non di più non di meno. Il primo passo è la “formazione del locale”, una sorta di consacrazione che, alla fine del rito, verrà rifatta al contrario: “Se prima questo era un luogo di transito e passaggio da questo momento in poi è un luogo sacro, santo e inviolabile”. Segue l’inevitabile offerta di sangue. In mancanza di un coltello, se il battesimo avviene in carcere, il “puntaiolo” impugna un punteruolo da calzolaio. È il novizio che deve pungersi da solo: se non ci riesce al terzo tentativo, l’auspicio è pessimo e bisogna rinviare di sei mesi, ma se questo “pericolo” viene sventato, si passa alle formule di rito: “A nome dei nostri tre vecchi antenati, io battezzo il locale e formo società come battezzavano e formavano i nostri tre vecchi antenati, se loro battezzavano con ferri, catene e camicie di forza io battezzo e formo con ferri, catene e camicie di forza, se loro formavano e battezzavano con fiori di rosa e gelsomini in mano io battezzo e formo…“. Il novizio giura “di rispettare le regole sociali, di rinnegare madre, padre, fratelli e sorelle, di esigere e transigere centesimo per centesimo. Qualsiasi azione farai contro le regole sociali sarà a carico tuo e discarico della società“.
Invero, almeno tra le file delle camorra, questo modello appare superato e sostituito dall’introduzione dei tatuaggi: un legame, un marchio tangibile, indelebile ed eterno della fedeltà all’organizzazione, oltre che un modo per professare l’egemonia e la forza del clan, esibendo disegni e concetti dall’imponente carica simbolica. Molto spesso, inoltre, adepti della criminalità organizzata esibiscono tatuaggi raffiguranti icone religiose: il Volto Santo e Padre Pio quelli più gettonati.
L’ingresso degli appartamenti dei camorristi, puntualmente accolgono statuine, quadri della Madonna, del Sacro Cuore o di Padre Pio. Le cappelle votive accolgono le foto dei morti, trucidati da una pioggia di proiettili, esplosi dai clan rivali. E quelle anime, quindi, vengono affidate alla veglia di Dio.
Le icone sacre alle quali la camorra, in particolare, si affida, sono ben definite: Padre Pio, la Madonna del Carmine, venerata come la protettrice della camorra, la Madonna della Pignasecca e quella di Montevergine – detta anche Madonna Schiavona – Sant’Anna del Rifugio, San Vincenzo della Sanità, affettuosamente chiamato “o’ Munacone”, San Giuseppe, San Ciro di Portici e Santa Lucia.
Non di rado, infine, i luoghi in cui presenziano le piazze di spaccio vengono indicati da graffiti del tipo “Dio c’è” o che parimenti assicurano la presenza di Gesù. Inoltre, in più di una circostanza, piazze di spaccio piuttosto quotate sono insorte in luoghi in cui troneggiano cappelle votive: una delle piazze più prolifere del Rione Conocal di Ponticelli, sgominata lo scorso giugno, stanziava in piazza Padre Pio, proprio a ridosso della sua statua, ragion per cui, i vertici del clan D’Amico e i gestori della piazza, erano soliti ironizzare su questo aspetto, sottolineando che il cospicuo ricavo generato dal business fosse merito della “provvidenziale benedizione” del frate con le stimmate.
Secondo il magistrato Roberto Scarpinato, «vittime e carnefici pregano un Dio diverso». Quello invocato dai boss è un Dio inventato e strumentalizzato a proprio uso e consumo, modellato sul sistema di pensiero e di valori proprio dell’organizzazione criminale: onnipotente, severo e implacabile.