Giuseppe Misso, detto “’o nasone”, è uno che la camorra non la racconta per sentito dire, perché è stato un boss che l’ha vista, conosciuta e vissuta con i suoi occhi, sulla sua pelle.
Classe 1976, Misso è stato per decenni il reggente dell’omonimo clan che ha fatto tremare i vicoli del centro storico napoletano e non solo.
Descritto come un boss dal forte carisma, il suo clan si contraddistingue per una peculiarità tutt’altro che trascurabile: la capacità di trarre introiti anche attraverso “fonti di guadagno” che differiscono dalle classiche attività illecite che sostentano i clan, specializzandosi in furti e rapine nelle banche, negli uffici postali e dei furgoni blindati e tra i profitti dal controllo delle cooperative di ex detenuti, dell’usura, dai falsi, dall’oro e dal controllo delle gioiellerie.
Nel 2007, Giuseppe Misso si pente, rinnega la camorra e diventa collaboratore di giustizia. Ascoltato in 155 processi, non è mai stato smentito, pertanto gli inquirenti lo reputano un testimone attendibile.
“Sono un uomo che la camorra l’ha vissuta a 360 gradi, – spiega Giuseppe Misso – ma era una camorra che seguiva delle regole.
A 19 anni ho fatto la storia, sfidando l’Alleanza di Secondigliano. Insieme a mio fratello Emiliano ho conquistato Napoli, eravamo il terrore dei clan del centro storico, avevamo potere, decidevamo della vita di tutti, ma era tutto surreale, erano ideali indegni e di questo ne ho preso coscienza circa 10 anni fa, quando ho sviluppato un senso di schifo verso la camorra e ho scelto di collaborare con la giustizia.”
Giuseppe Misso è accusato di 38 omicidi e implicato in altre 108 agguati riconducibili a fatti di camorra, per un totale di circa 150 vite stroncate per servire un ideale, per inseguire una chimera che da tempo immemore si fa spazio tra le strade dell’omertà e della povertà, lasciandosi alle spalle una scia di sangue, morte e cieco desiderio di riscatto e vendetta.
“Sangue chiama sangue”: questo è uno dei dogmi intramontabili sul quali è saldamente ancorato il credo camorristico.
Perché la camorra uccide e cosa si prova quando si uccide un uomo?
“Stavo in guerra. È come se venissi chiamato dalla nazione per andare a combattere contro un’altra nazione. Ammazzi per sopravvivere. Io lavoravo, facevo il pasticciere. Un giorno mi spararono per il cognome che porto. E da lì ho iniziato a vivere ispirandomi al principio “morte tua, vita mia”.
Oggi, quando guardo i miei figli, penso a tanti figli che non hanno più un papà e alle madri che non hanno più i figli. Ma, allo stesso tempo, penso che ho tolto tanto, ma mi hanno tolto tanto: due cognati uccisi, uno era un bravissimo ragazzo, è stato riconosciuto vittima innocente della criminalità. Una zia uccisa, tanti amici che non ci sono più.
La guerra è guerra. È così.
Cosa si prova quando si commette un omicidio? ve lo dico io: soddisfazione, per aver ammazzato il nemico e per averlo visto soffrire. Quando io ammazzavo, mi sentivo fiero di aver eliminato il mio nemico e subito dopo già programmavo il prossimo omicidio per annientare il prossimo nemico, ma oggi posso dire che solo Dio decidere la sorte dell’essere umano.
La camorra è una strada senza via d’uscita che ti condanna a morte o al carcere a vita. Non esistono altri finali, la storia mia e di tutti gli altri boss, di ieri e di oggi, lo insegna.”