Antonio Lo Russo è balzato agli onori della cronaca come il boss che guardava le partite casalinghe del Napoli a bordo campo e che giocava alla play station con il Pocho Lavezzi.
Lo Russo fu arrestato a Nizza dopo quattro anni di latitanza, adesso torna a far parlare di sé perché vuole collaborare con la giustizia. Da alcuni giorni, Antonio Lo Russo ha cominciato ad interloquire con i magistrati della Procura di Napoli che indagano sulle ramificazioni della potente organizzazione camorristica dei “capitoni” capace di estendere la propria influenza sia nel quartiere Miano sia al Rione Sanità. Il pm Enrica Parascandolo, che con il pm Henry John Woodcock e il procuratore aggiunto Filippo Beatrice coordina le indagini sulla cosca criminale, lavora per valutare la consistenza e l’attendibilità delle prime rivelazioni di Lo Russo, quarto esponente della famiglia malavitosa a manifestare la volontà di parlare con i magistrati: il primo era stato il padre, Salvatore Lo Russo, che nei suoi verbali accusò fra gli altri l’ex capo della squadra mobile Vittorio Pisani del quale era stato a lungo confidente. Il superpoliziotto è stato poi scagionato con la formula più ampia da tutte le accuse e il pentito è stato anche condannato per calunnia. Più di recente, hanno scelto di collaborare due fratelli di Salvatore Lo Russo, Mario e Carlo, i cui verbali sono stati già riversati in alcune delle più importanti indagini sui clan. Adesso è giunto il momento di Antonio: 35 anni, un paio di condanne pesanti, nessuna però per omicidio e una storia personale che ha occupato più volte le pagine dei giornali.
A cominciare da quella foto, scattata sul terreno di gioco dello stadio San Paolo ad aprile 2010, che lo ritraeva a bordo campo durante una delle partite più importanti del campionato 2009-2010, quel Napoli-Parma 2-3 che costò, di fatto, l’addio della squadra azzurra alla qualificazione Champions. Sulla gara si addensarono i sospetti dei magistrati che indagavano su un flusso ritenuto anomalo di scommesse, ma dalle verifiche non emerse alcun elemento per ipotizzare irregolarità. Al San Paolo, accertarono gli inquirenti, Lo Russo era entrato con il pass di una ditta. Nel corso del processo sul reimpiego di denaro in alcuni locali del lungomare (istruito grazie anche alle dichiarazioni del padre e concluso, nei giorni scorsi, con le condanne definitive per Bruno, Salvatore e Assunta Potenza, figli dello storico contrabbandiere di Santa Lucia Mario detto ‘o chiacchierone) emerse invece il rapporto di amicizia che legava il figlio del “capitone” a uno degli idoli della tifoseria napoletana di quegli anni, il calciatore argentino Ezequiel Lavezzi detto “el Pocho”.
Sentito come testimone a dibattimento, l’atleta raccontò di aver giocato alla playstation con Lo Russo junior: “Non sapevo fosse un camorrista, per me era solo un ultrà. Veniva a casa mia perché in Argentina è normale avere rapporti con i calciatori”.
Il nome di Antonio Lo Russo era spuntato anche negli atti dell’inchiesta sull’omicidio di Antonio Metafora, il coraggioso avvocato civilista assassinato nel suo studio del corso Umberto, il 5 maggio 2008, da un parente della famiglia malavitosa dei Licciardi, Salvatore Altieri, che cercava di rientrare nella disponibilità di un garage per il quale l’avvocato Metafora, nell’interesse del proprietario dell’immobile, stava curando la procedura di rilascio. Altieri, che andò allo studio del legale accompagnato da un complice mai identificato, è stato condannato.
Tra le carte compare un riferimento alla moglie di Antonio Lo Russo, indicata come uno dei possibili nuovi affittuari del garage. Un dato neutro, che non ha portato ad alcuna ipotesi investigativa. Ma anche, oggi, un’altra storia sulla quale l’aspirante pentito che amava il calcio potrebbe contribuire a fare piena luce.