Giugliano in Campania, 23 ottobre 1980: all’ingresso del Parco Carola, in via Dante Alighieri 55, Antonio De Rosa, un medico di base, sta tornando a casa dopo essere stato dal barbiere con il figlio quindicenne, Vincenzo. Pochi minuti dopo rientra anche la moglie di Antonio, Concetta Puzzi. Anche lei è stata dal parrucchiere e ha portato con sé la sua seconda figlia, Anita. “Antonio, mi raccomando, non fare tardi che fra poco è pronta la cena”: questa l’ultima inconsapevole frase che la moglie gli rivolge, seppure la presenza di un personaggio tutt’altro che gradito le consegna una sensazione spiacevole. Si tratta di Antonio Sciorio, un affiliato al clan di Raffaele Cutolo, reduce da uno sventato agguato: mesi prima alcune persone hanno tentato di ucciderlo senza riuscirvi. Corre voce che abbia le ore contate. Concetta ritiene che sia pericoloso stargli vicino. Aveva già detto a suo marito, in più di una occasione, di evitare di fermarsi a chiacchierare con lui. Eppure passa senza dire altro, anche se avrebbe tanto voluto, pensando tra sé che Antonio non ci farebbe una bella figura con gli amici se la moglie gli “ordinasse” di salire immediatamente a casa. Così tira dritto e si avvia a salire a casa per preparare la cena. Nel frattempo chiede ad Anita di recarsi dal macellaio per comprare la carne di manzo.
Antonio continua ad intrattenersi con altri condomini, anche se Antonio Sciorio è ancora lì, nei pressi della guardiola del custode del condominio, ed è attento a tenere d’occhio la strada e tutto l’ambiente circostante, per evitare sorprese. Non è la prima volta che hanno tentato di ammazzarlo. Ora teme per la sua vita. Perciò con la coda dell’occhio, mentre parla con gli altri, osserva, scruta, e guarda chi passa, a piedi o in auto. E quando si ferma a parlare con qualcuno, si posiziona sempre in modo da avere pieno controllo della strada per poter individuare in tempo ogni eventuale pericolo. Antonio, il medico, e Antonio Sciorio, il cutoliano, hanno anche una vaga somiglianza. Quella sera indossano un giubbino di renna marrone, quasi simile. Nel crocchio di persone davanti al gabbiotto del custode, si parla delle solite cose: la salute, il calcio, il condominio.
La discussione si blocca quando una persona a una decina di metri dal gruppetto grida: “Don Antò, don Antò”. Antonio De Rosa è di spalle. Si gira. Ha solo il tempo di vedere due col volto coperto che cominciano a sparare. Non ce la fa a ripararsi dal fuoco delle armi, non ne ha il tempo. Lo fa invece la vittima designata, Sciorio. Con un salto felino scavalca un muretto proprio dietro le sue spalle e si nasconde nella villa di sua madre, che è a pochi metri. Scappano tutti. Ognuno cerca un riparo sicuro: in un negozio, dietro un’auto parcheggiata, il portiere nella sua guardiola. Scappano anche i due giovani che hanno sparato. La calma torna dopo alcuni minuti, preceduta da un silenzio da paura.
A terra giace il corpo senza vita di Antonio De Rosa, il medico di base, colpevole solamente di essersi fermato a chiacchierare con alcune persone prima di rientrare a casa. Dei killer, invece, nessuna traccia. Non si sono nemmeno resi conto che hanno ucciso un’altra persona e non la vittima designata.
Condannato da un giubbino, da una somiglianza fisica: Antonio, medico di base, padre e marito, non era nl posto sbagliato nel momento sbagliato. Quello era il condominio in cui viveva. Mentre “l’altro Antonio” ha condannato a morte il suo omonimo, mentre era alla ricerca di quello scampolo di “normalità” che non può appartenere alla vita ordinaria di chi ha scelto di servire la camorra, soprattutto se sul suo capo pende una condanna a morte.