La notizia non è nemmeno così tanto nuova. Una giuria di registi, produttori e critici cinematografici ha scelto “Fuocoammare” come candidato per l’Italia agli Oscar nella categoria “Miglior film in lingua straniera”. Da quel momento non sono mancate le critiche e le polemiche sulla scelta. In primis una voce autorevole come quella di Paolo Sorrentino, membro della giuria e vincitore nel 2013 della prestigiosa statuetta con “La grande bellezza”. Secondo il regista napoletano “il film di Gianfranco Rosi andava candidato nella sezione documentari. Come film perde appeal e questo può essere uno svantaggio nei confronti della giuria che dovrà scegliere il vincitore”.
Le parole di Sorrentino sembrano essere una bocciatura per “Fuocoammare” ma non sembra essere cosi. La pellicola, nel 2014, si è aggiudicata un altrettanto prestigioso riconoscimento come “L’orso d’oro” al Festival internazionale del cinema di Berlino. E lo ha fatto nella sezione dei film, strappando consensi unanimi e ben 20′ di applausi ininterrotti. Quindi dov’è la verità? E’ un discreto film o un grande documentario? O viceversa?
La risposta si trova nei lavori precedenti del regista Gianfranco Rosi, eritreo di nascita e statunitense d’adozione ma con passaporto italiano. Se ne discute sul film perché con Gianfranco Rosi è così. E non da ora.
Da quando nel bianco/nero/grigio di un 16mm con “Boatman” nel 1993 filmò quel Caronte che sulle onde del Gange portava i cadaveri dei poveri non degni del fuoco, a marcire nel limo del fiume. Era un film? Certo che era un film. Era un documentario? Certo che lo era ma era anche un poema, una pagina letteraria, un pezzetto di eternità nelle pieghe della contemporaneità.
Poi fu la volta di “Below sea level” e del racconto corale di una comunità bislacca che viveva nel deserto californiano a 40 metri sotto il livello del mare. Anche Rosi visse lì a lungo prima di girare e raccontare tra amicizie e sghembe dinamiche, una commedia umana ai confini della realtà. Era un documentario? Di più: una storia funambola che appassionava e faceva scoprire al Festival di Venezia questo straordinario story teller con macchina da presa.
Un anno dopo sempre a Venezia nel 2010 con “El sicario-room164” e quella macchina fissa su un volto pixxellato di uno spietato, torturatore e assassino, killer di centinaia di persone Rosi raccontò gli orrori di un sicario che si confessava nella stanza numero 164, ci lasciò incollati sulla poltrona rabbrividendo come non era mai successo con i più violenti film sui cartelli dei narcos. Oltre il film. Oltre il documentario.
E poi arriva “Sacro Gra” e con quella favola nera che trasforma il raccordo anulare di Roma in un bosco dei fratelli Grimm, Rosi vince il Leone d’oro a Venezia. La prima volta di un documentario si disse. Ma era solo un documentario? O l’immagine di una città ancora eterna nella sua periferia, un purgatorio pieno di anime buffe, i resti di un’imperiale Roma che vive negli sguardi nei volti nel cinismo e nel paradosso di un barelliere della free way, del botanico Francesco che lotta contro il punteruolo rosso per la vita di palme spelacchiate, di un principe affitticamare degno di Totò e di un pescatore di anguille. Una Roma molto più vera di quella storica invasa dai turisti. E’ un documentario? Non lo so. E’ Il realismo magico di Rosi.
E siamo a “Fuocoammare”. Che non è un documentario su Lampedusa, né sulla tragedia dell’immigrazione. Che non a caso ha vinto l’Orso d’oro perché è un film sull’Europa, perché è un gesto di speranza. Ci salveremo, ci dice. Ce la possiamo fare. Nel caos di un mondo spettinato e tragico ci salverà il lavoro. Il guardiano del faro, il medico dell’ambulatorio, il marinaio, la nonna casalinga, la voce della radio locale. Ci salverà l’uomo, l’unico in grado di salvare l’altro uomo. Ci salverà il dovere. L’etica e non la pietà. E ci salverà anche questo grande film laico, pieno di amore e umana misericordia.
Un film che ci riempie d’orgoglio. E se i membri dell’Academy non lo capiscono ce ne faremo una ragione. In fondo con “Fuocoammare” abbiamo già vinto la cosa più importante: una nostra ritrovata dignità.