La notizia della morte di Tiziana Cantone , la trentenne diventata celebre per un video hard diffuso in rete, ha suscitato forti e molteplici reazioni.
La notizia di una giovane donna che decide di abbracciare il suicidio, identificando nella morte l’unica via d’uscita in grado di sedare il dramma che tiene in ostaggio la sua serenità, di per sé, non lascia indifferente l’opinione pubblica. In questo caso, il dibattito impazza perché proprio l’opinione pubblica ha ricoperto un ruolo determinante nella vicenda di Tiziana.
La ragazza si era prestata a un gioco, una sorta di scherzo: il ragazzo al quale pratica un rapporto orale la filma mentre è intenta a praticare l’atto. Lei se ne accorge e pronuncia una frase, divenuta, poi, un vero tormentone: “Stai facendo il video!? Bravo!”
È proprio la ragazza ad inviare il video a cinque amici che, poi, a sua insaputa e senza la sua autorizzazione, iniziano a divulgarlo su whatsapp. Di lì a poco, viene pubblicato anche in internet e nel giro di pochi giorni, Tiziana diventa una vera star e quel video un autentico fenomeno virale.
Parodie, imitazioni, sfottò, fioccano pagine Facebook e video amatoriali in cui vengono emulate le gesta della giovane in chiave ironica.
“Stai facendo il video? Bravo!” diventa uno slogan da stampare sulle t-shirt, radio e giornali iniziano ad occuparsi del caso: tutti si chiedono chi è quella ragazza e cosa si cela dietro quel video.
Qualcuno ipotizza che si tratti di una sorta di trampolino di lancio per un’aspirante prono-star, altri suppongono che si tratti di un promo-elettorale e che di mezzo ci sia una cordata politica. Nessuno accetta l’idea che si tratti di uno scherzo “leggero” maturato in conseguenza ad un’ingenuità della ragazza.
Anzi, l’opinione pubblica massacra Tiziana: insulti, offese pesanti, parole forti, si alternano sul web e nella vita reale, tanto da rendere impossibile alla ragazza il sereno proseguo della sua vita ordinaria. In primis, si vede costretta a lavorare presso il locale di proprietà dei genitori. I giudizi della gente sono severi, pesanti, offensivi, umilianti.
Per sottrarsi a quel linciaggio sempre più feroce, Tiziana cambia perfino cognome, denuncia i suoi amici, chiede l’oscuramento di quel video e di tutte le pagine social ideate per ironizzare su quel video che, di fatto, ha sancito la sua rovina.
I tempi della giustizia, però, sono lunghi e di tempo per maturare delle consapevolezze, Tiziana ne ha avuto: niente sarebbe stato più come prima, questo le è chiaro e niente e nessuno avrebbe potuto rimediare ai danni arrecati alla sua immagine di donna, né riconsegnargli la sua dignità depauperata di quella devastante ferita. Quei pochi e conciati secondi hanno compromesso la sua reputazione e hanno pesantemente ipotecato anche le sorti legate al suo futuro.
Nell’era del 2.0, per rovinare un vita, basta pubblicare in rete un video della durata di pochi secondi.
Tiziana cade nel pericoloso baratro della depressione, tenta più volte il suicidio.
Il 13 settembre, nello scantinato dell’abitazione di una zia, Tiziana si toglie la vita impiccandosi con un foulard.
Un epilogo tragico che lancia un forte campanello d’allarme ai bulli da tastiera.
Adesso, chi l’ha denigrata, offesa e derisa, la compiange.
Quello stesso web che le ha distrutto la vita, ne commemora la morte.
Anche queste sono le brutture e i paradossi della generazione del 2.0, schematicamente programmata per esibire un copione ben definito in base alle circostanze: il fenomeno virale, in quanto onda del momento, va sempre cavalcato, ma, al cospetto della morte, un frigido “#Rip” va sempre e puntualmente rivolto per fare bella figura e conservare immutato il seguito di consensi che è necessario sortire sui social per sentirsi parte di quel mondo dove l’apparire distrugge l’essere ed imporsi per com’è giusto apparire agli occhi degli altri è più importante del farsi accettare ed accettarsi per ciò che si è realmente.
Tiziana è la prima vera vittima dei fenomeni da baraccone partoriti dalla febbre da social.
Quei ragazzi hanno diffuso quel video, probabilmente, solo per poter andare in giro a rivendicare il merito della notorietà di quel tormentone, per godere della compiaciuta ammirazione del gregge da tastiera e “sentirsi qualcuno” per aver sganciato in rete una vera bomba.
Una bomba esplosa nella vita di Tiziana e che, di fatto, gliel’ha distrutta.
Una parte del popolo virtuale e non, però, proprio non riesce ad espiare quella colpa alla ragazza e continua a sostenere quella tesi: è stata lei l’artefice del suo stesso destino, perché certe cose non si fanno. O meglio, si fanno, ma non vanno condivise né sbandierate ai quattro venti.
Per certi versi, Tiziana, ha pagato sulla sua pelle anche lo sfogo delle coscienze vestite di finto perbenismo e che hanno dovuto sparare a zero su quella scellerata condotta per scandire a chiare lettere la loro distanza da quelle condotte immorali. E poco importa se quei commenti, sprezzanti insulti ed offese, venivano postati da utenti adagiati su un letto affollato, nel bel mezzo di un’orgia o da parte dell’ennesimo pedofilo mascherato da persona perbene.
Indignarsi, al cospetto della trasgressione altrui è un modo subdolo di rafforzare l’alibi morale intorno alla propria perversione.
E, allora, chi ha ucciso Tiziana Cantone?
Il web, gli amici, i pregiudizi, la superficialità, la cattiveria, la sua ingenuità o la sua incapacità di rimanere aggrappata a quella vita tormentata?
La storia di Tiziana ci insegna proprio questo: prima di sparare conclusioni, pensieri e sentenze, sarebbe opportuno chiedersi chi siamo noi per giudicare la condotta altrui e se siamo veramente meglio di quello che vogliamo sembrare, a tutti i costi, una volta svestiti gli abiti delle apparenze.