Un tunnel separa il lugubre degrado delle panchine in ferro arrugginito o in cemento abraso di Piazza San Vitale, del Rione Traiano, di Soccavo e degli altri “mini-ghetti” rilevabili tra le strade più desolate del quartiere Fuorigrotta e i fascinosi bagliori della movida del lungomare Caracciolo.
Gli chalet, il via vai di gente che passeggia accanto al mare, i baretti di Chiaia, i locali della Riviera. “Il paese dei Balocchi” è a un passo dal buio e costernato degrado peculiare di quelle realtà cosiddette “difficili”.
Vicine e distanti, a portata di mano, seppure irraggiungibili: questa la più paradossale delle contraddizioni che sovente risuona come la maledizione per eccellenza che come, un indissolubile spettro, aleggia sulla città di Napoli.
Tra il desiderio di evadere da quel contesto squallido e sterile e l’opportunità di concedersi una ricca boccata d’aria c’è solo un tunnel.
È così che carovane di baby gang in sella agli scooter, affollati da due, tre, quattro giovanotti, senza casco e senza paura, sfrecciano dirette alla conquista della Napoli by night.
La stessa scena è rilevabile rivolgendo lo sguardo verso il Pallonetto di Santa Lucia e l’agglomerato di vicoli che intelaiano i Quartieri Spagnoli e “le zone difficili” del Centro Storico.
Ragazzi che fuggono dal buio e dal silenzio peculiari del nulla per evadere da quel destino che risuona perentorio come una condanna a quella vita di strada, difficile, troppo difficile, povera, precaria, ricca di stenti, privazioni, negazioni, rinunce, soprusi ed angherie.
Fuggire, fuggire in branco, perché in quei contesti regna il sentimento del “o tutti o nessuno”, capace di creare una complice coalizione che, troppo spesso, in maniera naturale e spontanea, si tramuta in affiliazione. In quei luoghi, talvolta, non intercorre alcuna differenza tra i termini “gruppo di amici” e “clan”, “paranza”.
Fuggire per una notte, come se non ci fosse un domani, per vivere tutto in una notte, che sia sabato o lunedì, non fa differenza, pur di andare incontro a quel qualcosa di bello che da quelle parti maledettamente manca. Le cose belle, nelle terre di camorra, non ci arrivano mai, perché quando un camorrista le intravede, le distrugge prima che gli altri possano scorgerle, affinché quello stato emotivo e quello stato di cose che rappresentano l’humus che feconda il terreno nel quale la camorra attecchisce, possa continuare ad alimentare quelle convinzioni, quel rabbioso desiderio di riscatto e quella fame che trasformano un bambino, un ragazzo, nu bravo guaglione in un anaffettivo soldato del sistema.
Così, in barba a quel credo in nome del quale “violento” è sinonimo di “giusto”, è lecito fomentare l’adrenalina mentre si sfreccia, in barba alle regole della strada, verso una notte da leoni: molestare le coppiette in auto, piuttosto che i gruppi di ragazze, insultare gli extracomunitari, prendere di mira un ragazzo in carne o con gli occhiali. Anche questo “fa parte del gioco”.
Un gioco che si fa decisamente più duro un volta salpati tra gli avventori della movida cittadina: furti, rapine, risse. Tutto è lecito, perché quei ragazzi, devono divertirsi.
L’ultima frontiera del puro sadismo per combattere la noia, delinea uno scenario ancor più cruento.
Le “stese”, anche quelle possono rientrare nelle attività “ludiche” praticate da quei ragazzi per evadere dalla noia.
Una raffica di colpi d’arma da fuoco esplosi in cielo per punire o intimorire gli esponenti di un clan rivale, in genere è in questo scenario che si collocano abitualmente le stese, ma la storia contemporanea insegna che quei ragazzi possono attuare quel macabro rituale solo per il gusto di leggere il terrore negli occhi di chi rischia di diventare bersaglio.
È successo lo scorso sabato notte, 10 settembre, a Marigliano. Due giovani, di 18 e 20 anni, entrambi di San Vitaliano ed appartenenti a famiglie camorriste, hanno ammesso di aver sparato, per fortuna con una pistola a salve, «perché ci piace vedere la paura in faccia alle persone».
«Non sapevamo cosa fare, e allora abbiamo pensato di divertirci così, spaventando la gente» è la terrificante giustificazione.
Il maggiore, Remo Filippini, è il figlio di un esponente di spicco del clan Filippini-Lucenti, mentre il diciottenne, Luigi Palermo, è il nipote di un altro affiliato dello stesso clan. Remo Filippini era già noto alle forze dell’ordine per reati contro il patrimonio, mentre il diciottenne era in permesso dalla comunità, dove si trova per una rapina commessa da minorenne.
Almeno quattro i colpi esplosi, prima tra i clienti di alcuni bar e poi vicino le case popolari nei pressi del complesso del rione Pontecitra. Sul posto i carabinieri, agli ordini del comandante provinciale di Napoli Ubaldo Del Monaco, hanno trovato e sequestrato alcuni bossoli di una semiautomatica a salve.
La camorra: una moda da seguire, uno stile di vita al quale ispirarsi, una religione da servire e in cui credere. Alla base di tutto c’è proprio questo: un’educazione a delinquere molto più ficcante e persuasiva di quella impartita tra i banchi di scuola.
La vittoria del sistema è tutta lì, nell’abilità di sottrarre braccia e menti al percorso evolutivo, educativo e maturativo confacente alle persone perbene per assicurarsi prodi e fedeli soldati.
In quei rioni, in quei vicoli, in quei quartieri in cui regna il nulla, la camorra vince a tavolino la sua partita contro lo Stato.