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Serve ancora la pena di morte?

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
4 Agosto, 2016
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Serve ancora la pena di morte?
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Sono passati 252 anni dalla pubblicazione di “Dei delitti e delle pene“, il testo per eccellenza contrario alla pena capitale, usata per ogni crimine e capriccio dei reali settecenteschi; dai tempi di Beccaria a Pannella, morto il 19 Maggio scorso a 86 anni, l’opinione pubblica e l’uso della pena di morte sono cambiate notevolmente in Occidente. Eppure permangono situazioni di ingiustizia e violazione dei diritti per detenuti in paesi ove la democrazia si sfuma nella dittatura: Cina, Iraq, Somalia ma anche Indonesia e Stati Uniti, in cui si stanno sollevando sempre più dubbi e proposte sull’abolizione definitiva.

Pannella stesso è stato per certi versi un Beccaria della nostra epoca, leader del Partito Radicale e una delle personalità più attive all’abolizione in tutto il globo della pena di morte: ieri l’ong “Nessuno tocchi Caino” lo ha premiato col titolo di Abolizionista dell’anno, onorando la recente scomparsa e l’impegno sostenuto fin dalla gioventù. Nello stesso giorno è stato pubblicato il Rapporto 2016 sul fenomeno, in cui sono raccolti i dati di tutti i paesi che applicano ancora la sanzione estrema per crimini di guerra, violenza sessuale, traffico di droga o anche “comuni” come furti.

Confrontando le analisi sopraccitate con il report di Amnesty International 2013, purtroppo le nazioni dove la pena capitale non è abolita sono aumentate, passando da 22 a 25 (tra cui Ciad e Oman), e il numero di esecuzioni spaventa alla sola lettura: tre anni fa quasi 780 persone sono state giustiziate, di cui l’80% in Iran, Iraq e Emirati Arabi. Nel 2015 ben 4.040.

Nell’indagine dell’associazione italiana le cause dell’aumento devono essere ricondotte nella lotta al terrorismo e al traffico di droga, quest’ultimo diventato uno slogan da corsa elettorale del presidente indonesiano Joko Widodo che ha condannato 30 individui alla morte da Ottobre 2014, anno in cui si è insidiato nel macro-arcipelago.

Il ricercatore Charles Beraf sostiene che la ripresa della pena di morte in Indonesia sia l’effetto e non la causa di un malessere sociale, alimentato dalla corruzione nella classe politica e dalla mentalità della popolazione che, dopo la colonizzazione degli olandesi, insiste a chiedere la formula “occhio per occhio” quasi come “se facesse parte della loro cultura“. A parere dello studioso è necessario “riformare la struttura della legge, la sua cultura e la sostanza“: se la burocrazia rallenta i processi anche di anni, i giudici scendono a patti con poliziotti o potenti signorotti locali e la norma viene percepita come una truffa che non soddisfa la vittima e protegge gli interessi dei criminali in base al loro status sociale, allora i cittadini continueranno a credere nell’esecuzione capitale. Questa conclusione, in apparenza generica e buonista, offre una chiave di riflessione sul perchè in quei 25 paesi si continua ancora a uccidere in nome della buona legge, per quanto sia questa una soluzione costosa e inadeguata alla sicurezza di una comunità. Il sociologo americano Thorstor Sellin aveva già dimostrato negli anni Cinquanta che i tassi di omicidio erano pressochè uguale fra gli stati federali USA ove la pena di morte era abolita e quelli dove era ancora vigente.

Allora a cosa serve immolare il criminale? Il popolo non vuole giustizia ma la realizzazione di una “mera espressione di un bisogno affettivo di rappresaglia“, come a soddisfare una sete di massa. Sangue per sangue.

Una menzione speciale merita la condanna per un minore: Arabia Saudita, Iran, Yemen, Sudan e Nigeria sono gli unici paesi al mondo dove i minori di 18 anni devono pagare con la morte il loro crimine. Se i paesi sopraccitati soffrono di gravi violazioni dei diritti umani in moltissimi ambiti, anche gli Stati Uniti non sono stati da meno: soltanto nel 2005 una sentenza della Corte Suprema nel caso Roper v. Simmons aveva reso anticostituzionale l’esecuzione di adolescenti. Consultando gli archivi pubblici e report di siti contro la “death penalty” si può appurare comunque che questa veniva applicata a 16 o 17enni per reati gravi come sequestro di persona, stupro e omicidio. Se un adolescente arriva al punto di commettere simili crimini, ucciderlo non rende giustizia né alle vittime né alla giovane vita spezzata. Semmai denuncia una situazione di anormalità nel contesto dove vive, anzi, viveva.

Tags: giustiziaindonesiamarco pannellamedio orienteNessuno tocchi CainoPena di mortestati uniti
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