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Anche da morto Angelo Vassallo continua a battersi contro la criminalità

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
20 Luglio, 2016
in Cronaca, In evidenza
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Angelo Vassallo: storia di un omicidio annegato nel mistero
Share on FacebookShare on Twitter

angelo-vassallo-1078x516Le indagini sull’omicidio di Angelo Vassallo, il sindaco-pescatore di Pollica ucciso in un agguato nel settembre 2010 e tuttora incapaci di assicurare alla giustizia un killer, un movente e un mandante, consacrando l’omicidio tra i grandi gialli irrisolti della storia del nostro Paese, si vedono quantomeno attribuire un importante merito. Proprio l’inchiesta scaturita per far luce sulla morte del sindaco-pescatore hanno spianato la strada alle indagini dirette dalla Dda di Catanzaro sulla cosca Muto della ‘ndrangheta che hanno portato all’operazione “Frontiera”, con l’arresto da parte dei carabinieri di 58 persone.

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Fu proprio Vassallo a denunciare un traffico di stupefacenti nel territorio di Pollica che poi si è scoperto essere gestito proprio dai Muto.  Anche quattro persone di Sala Consilina sono coinvolte nell’Operazione “Frontiera” che durante la mattina di ieri ha visto i Carabinieri del ROS impegnati in Calabria, Campania, Basilicata, e Lombardia, per dare esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal G.I.P. del Tribunale di Catanzaro, su richiesta della locale D.D.A., nei confronti di 58 persone indagate per associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, rapina, usura, illecita concorrenza con violenza e minaccia ed altri delitti.

Contestualmente, è stata data esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo di beni mobili ed immobili per un valore complessivo di 7 milioni di euro.

Nel comunicato stampa diffuso dai Carabinieri del Comando Provinciale di Cosenza viene ripercorsa tutta l’attività di indagine partita nel settembre 2014 successivamente all’omicidio del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo. In quella fase venivano avviate indagini finalizzate ad accertare l’operatività nel Cilento e nel Vallo di Diano di articolazioni della cosca muto di Cetraro (CS) attive nel settore del narcotraffico.

“L’attenzione veniva focalizzata – hanno spiegato gli inquirenti – sul conto di Vito Gallo di Sala Consilina, in storici rapporti criminali con Francesco e Luigi Muto da Cetraro, nonché con Pietro Valente, rappresentante della ‘ndrina di Scalea (CS), federata agli stessi Muto”.

Le indagini sono state condotte sotto la direzione del Dr. Nicola Gratteri, Procuratore Capo della Repubblica di Catanzaro. Dalle indagini è venuta fuori la presenza di una attività estorsiva messa in atto nel Vallo di Diano ai danni di un imprenditore, titolare di più supermercati per assicurare ai Muto la gestione della pescheria interna ad una delle attività che in passato era stata anche oggetto di un attentato dinamitardo.

Lo chiamano il re del pesce perché per circa 150 km di costa tirrenica non si vende pesce che lui non voglia. Per i collaboratori di giustizia Franco Muto è uno dei dieci boss più potenti della ‘ndrangheta. L’unico a sedere sia al tavolo con la ‘ndrangheta reggina sia a quello della camorra napoletana, da Raffaele Cutolo a Carmine Alfieri. Tant’è che quando il re del pesce viene ricoverato al Cardarelli di Napoli in seguito a un agguato, gli Alfieri piazzano un loro uomo a guardia della stanza dell’ospedale. Eppure, Muto inizia a lavorare come imbianchino, poi fruttivendolo e infine calzolaio. La svolta giunge quando capisce che i soldi si possono fare con il mercato ittico. Si insedia a Cetraro, zona porto, e lì costruisce la sua prima pescheria, la San Francesco. Trecentocinquanta metri quadri su demanio marittimo. Senza che il comune dica nulla. Allaccia rapporti con i Pino-Sena (la ‘ndrina dominante a Cosenza). In particolare con Antonio Sena che gli fa da compare. Al tempo stesso riceve la benedizione di Giuseppe Piromalli da Gioia Tauro. Muto vene descritto come un uomo dall’indole marcatamente violenta, un aspetto che associato a carisma e determinazione, concorre a scaturire un mix letale. Nei primi anni ’90 la Polizia fece una sorta di sondaggio tra tutte le attività commerciali della costa: hotel, ristoranti, pescherie, supermercati, case di cura, ospedali. Risultò che quasi l’80% si riforniva esclusivamente dai Muto. Ma soprattutto si evidenziò che non c’era contrattazione, era un’imposizione, una tangente travestita da ordine di merce.

Anche se la “competenza territoriale” del clan va dalla Basilicata a Falerna, i camion di Muto arrivano a Pompei, Ercolano, Formia, Gaeta.

Anche dal carcere Franco Muto riesce a comunicare con i suoi e a dare disposizioni. Quello che non può fare direttamente lo portano a termine moglie e figli. Anche la moglie, Angelina Corsanto è stata condannata per associazione mafiosa. Il monopolio di Muto sul territorio è totale. Con l’usura finanzia le attività edilizie lungo tutta la costa (fino a Sala Consilina, nel salernitano) con tassi di interesse che arrivano a toccare il 15% mensile. Pur dicendosi contrario al traffico di stupefacenti, la sua organizzazione è riuscita a mettere in piedi un sistema di import/export di primo piano. Importando droga da Colombia, Venezuela e Olanda. Coinvolti nella rete camorristica, una serie impressionante di imprenditori e prestanome che offrono coperture per il traffico di droga. I più importanti vengono individuati a Milano e Verona. Sotto il controllo di Muto non ci sono solo imprenditori e attività economiche ma anche istituzioni. Ne è il simbolo l’ospedale di Cetraro che per anni è stato utilizzato come “ luogo sicuro” per svolgere le riunioni del clan. Ma anche come sbocco clientelare dove assumere persone a lui vicine.

Dalle gesta di Muto emerge anche il rapporto ‘ndrangheta-politica: garantiva il suo appoggio per accaparrare voti di preferenza con sistemi intimidatori e poneva a disposizione il suo nome prestigioso e l’opera valida del suo clan per assicurare protezione. I Cesareo assumevano l’impegno di agevolare il monopolio delle più redditizie attività della zona in favore del Muto. Per questi e altri casi non saranno mai individuate responsabilità. Come è stato per una lunga serie di omicidi a carico di persone che avevano denunciato lo strapotere dei Muto.

Per essersi opposto al pizzo, Lucio Ferrami verrà ucciso barbaramente mentre tornava a casa. Il suo nome è rimasto nell’oblio per quasi trent’anni prima di ricevere una targa commemorativa dal Comune. Condannato all’ergastolo in primo grado, Muto verrà assolto in secondo grado a Bari per insufficienza di prove.

Anche per l’omicidio di Giannino Losardo, segretario della Procura di Paola, non si conoscerà mai il nome del mandante. In altri casi, invece, non si ritroverà nemmeno il corpo della vittima. Così fu per Franco De Nino, il ragioniere dei Muto scomparso e mai più ritrovato.

Scompare anche un testimone chiave nel processo per l’omicidio Losardo, Luigi Storino, affiliato al clan che aveva deciso di collaborare con la giustizia.

Una mentalità criminale che sembra sia stata ereditata anche dai giovani rampolli di famiglia. Come testimoniano i loro post su facebook che inneggiano a Totò Riina e al mondo mafioso (inquietante un selfie di due adolescenti con le pistole puntate una alle tempie e l’altra verso la webcam). Corredato da applausi e compiacimenti di chi li segue.

 

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