Il rosso vermiglio, il blu cobalto, la carta da parati anni ’60: questi sono gli elementi con cui Pedro Almodóvar costruisce Julieta, titolo con cui il regista spagnolo si è presentato a Cannes 2016 e che rappresenta il suo ritorno all’universo femminile.
Basandosi sui racconti “In fuga” di Alice Munro, torna a esplorare l’universo femminile, cosmo variegato che più volte l’ha ispirato tirando fuori le sue note più splendenti (Tutto su mia madre, Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Volver). Julieta è una giovane insegnante che sul treno per Madrid conosce Xoan (Daniel Grao). Un evento sconvolgente unisce i due in una notte di passione dalla quale nasce Antìa. Julieta e Xoan si riuniscono e vivono la loro vita fino alla morte di lui in un tragico incidente in barca. La perdita di una persona cara non unisce madre e figlia, ma le allontana gradualmente fino a quando, al suo diciottesimo compleanno, Antìa abbandona il ritiro cui stava partecipando senza dare nessuna spiegazione alla madre, per poi vivere nel silenzio più totale. Sul treno, la giovane Julieta entra in contatto con i due poli dell’esistenza umana: la morte e la vita.
L’amore fisico è la risposta alla morte. Per Almodóvar il treno è un luogo “significativo e metaforico” ed è sempre lui che dichiara : “La donna non solo dà la vita, ma è più forte nel combattere, gestire, soffrire e godere di tutto ciò che offre la vita”, aggiunge: “Solo il caso è più forte di lei”. Ed è infatti il caso a dividere in due la vita di Julieta. Coincidenze e casualità, la morte che sussegue la vita, che anticipa la morte.
L’esistenza come una ruota che continua a girare senza mai poterla fermare o scendere. Entrare nella vasca da bagno come una venticinquenne e uscirne quarantenne, il tempo che scorre senza accorgersene, i silenzi, la attesa e la rassegnazione. Il dramma lacera la vita di Julieta e la trasfigura, la sua trasformazione è repentina, forse troppo assoluta. Spesso le donne trovano nel loro ruolo di madre la forza per non lasciarsi avvincere dal dolore, invece la Julieta di Almodóvar naufraga e diventa figlia di sua figlia. Si perdono nei buchi neri della sceneggiatura anche le motivazioni che hanno portato Antía a fuggire. Ed è questa croce e delizia del film: alcune scelte umane, discutibili ed eversive, si spiegano a fatica. Ma a volte è forse impossibile spiegare con parole e ragione. Cristallino, autentico e inattaccabile, è invece il vuoto immenso che vive la protagonista, nell’attesa della figlia scomparsa, piena soltanto di un silenzio assordante. La sua pena è emozionante. “La tua assenza riempie totalmente la mia vita e la distrugge”, scrive Julieta. Il rapporto fra la madre e la propria figlia è lo specchio di quel desiderio di allontanarsi da chi si ama all’apparenza inspiegabile ma, ad uno sguardo più approfondito, unica via di fuga da una vita in grado di portar via improvvisamente le persone a noi care e con loro noi stessi; scappare, allora, sembra essere l’unico modo per evitare quell’opprimente senso di responsabilità capace di far sentire colpevoli per ciò che non si avrebbe mai desiderato accadesse. Il senso di colpa è bastardo, si infila anche laddove la razionalità potrebbe scacciarlo facilmente.
Ed è un legame latente che unisce e separa madre e figlia. “Il senso di colpa, che lei trasmette anche alla figlia, si è insinuato nella sceneggiatura senza che me ne accorgessi”, ha rivelato il regista. Le uniche boccate di ossigeno vengono date dal personaggio di Rossy de Palma, l’anziana domestica di Xoan e Julieta, con le sue frasi secche e i modi spiccioli strappa delle risate al pubblico, ma nello stesso tempo riesce anche a incarnare la figura mitologica delle Parche, pur tenendosi distaccata dalla vita dei due protagonisti sembra sapere quale sarà il destino di entrambi. In questo film, Almodòvar sembra parlare più con se stesso che con il pubblico, affrontando le proprie ossessioni sullo sfondo di una storia che fa delle simbologie il suo asse portante; tutto ciò che accade riporta al mare (Πόντος), una forza primordiale in grado di attrarre e contemporaneamente respingere, proprio come il suo moto ondoso, metafora greca di quel futuro ignoto che riserva novità e pericoli. Un film circolare, privo di una risoluzione univoca, una riflessione sulle tante declinazioni della sofferenza e dell’incertezza con cui le persone affrontano la vita ed il dolore, un campo misterioso, impossibile da decifrare se non nel momento in cui lo si sperimenta.
I dialoghi costruiti con primi piani e campi e controcampi, danno a “Julieta” una dimensione soffocante dove i sensi di colpa taciuti diventano scomodi, nascosti dentro di sé si nutrono dei legami con gli altri, crescono e diventano bestie che fanno allontanare gli uni dagli altri. Insomma, non si può fare a meno di scrivere che senza eccezioni il cinema del cineasta spagnolo, anche in questa fase, continua ad essere uno dei più puri e godibili, dei più complessi e stratificati possibili, una vera e autentica indagine del mondo (e del sesso femminile) da un punto di vista personalissimo comunicata con straordinaria empatia.