Il cadavere di una donna, semicoperto dal terreno, riverso a faccia in giù, a due passi da un palazzo abbandonato alla periferia di Melito: inizia così l’ultima “storia da Gomorra” ambientata nella vita reale.
Un tatuaggio sul braccio rende possibile il riconoscimento di quel corpo appartenente ad una donna che gli inquirenti scopriranno, poi, essere tale nelle fattezze, ma non nella testa, nell’indole, nei modi di fare e nello stile di vita: Giovanna Arrivoli, 41 anni, si faceva chiamare Giò, gestiva un bar in via Lussemburgo a Melito, una delle zone in cui è più egemone l’influenza dei narcos Amato-Pagano, gli “Scissionisti” della faida di Scampia.
Il bar «Blue Moon», considerato una vera e propria roccaforte degli Amato Pagano, era il luogo di ritrovo degli affiliati e dei boss del clan, era lì che si decidevano le sorti delle trame criminali: alleanze, punizioni, partite di droga.
Proprio per droga Giò aveva avuto guai con la giustizia, in passato era finita in carcere e tornata libera nel 2012, dopo un breve periodo di detenzione ai domiciliari.
Per la stessa ragione, poche ore dopo il ritrovamento del cadavere di Giò, suo cognato, Carmelo Borrello detto “Carminiello”, è stato raggiunto da un’ordinanza cautelare, accusato di custodire stupefacenti per conto degli “Scissionisti”.
Questo il contesto che fa da sfondo all’omicidio e che suggerisce agli inquirenti la pista da seguire per risalire al movente e agli artefici dell’agguato che ha spento in maniera cruda e brutale la vita di quella donna che si sentiva un uomo.
Si apprestava a sottoporsi ad un delicato intervento per farsi asportare completamente il seno: un’ulteriore e sostanziale passo verso l’acquisizione di quella mascolinità che tanto le piaceva ostentare. Il taglio di capelli, l’abbigliamento, le movenze, la mimica, la gestualità: Giovanna, che anche per questo si faceva chiamare Giò, era un uomo imprigionato nel corpo di una donna e con un’altra donna viveva una relazione solida, suggellata anche da un anello nuziale. Una coppia a tutti gli effetti e Giò era l’uomo di casa. Tutto ha avuto inizio venerdì sera, quando Giò è sparita misteriosamente nel nulla. A lanciare l’allarme era stata proprio la sua compagna. Le ricerche sono scattate immediatamente, ma senza esito, fino a quando ai carabinieri non è giunta la segnalazione di un cadavere abbandonato in una fossa in via Giulio Cesare, in una zona isolata e degradata della periferia settentrionale della città. Era il corpo senza vita di Giò, crivellato da tre colpi d’arma da fuoco.
Giovanna Arrivoli era un personaggio cruciale della scena criminale della zona, al centro di tutto.
La rispettabilità conquistata nel corso degli anni passa anche attraverso quel senso di accettazione della sua omosessualità da parte del clan che in lei vedeva un uomo a tutti gli effetti e come tale l’ha trattata, fino alla fine. Anche nella feroce esecuzione tributatagli: giustiziata come un boss. Un’esecuzione che, di solito, di riserva alle figure di spessore del clan o a chi è custode di tanti, troppi segreti.
Giò è stata rapita almeno due o tre giorni prima che la compagna ne denunciasse la scomparsa, sabato scorso.
Un copione che i familiari dei camorristi puntualmente esibiscono in casi analoghi: al cospetto di una sparizione, si aspettano un paio di giorni, prima di andare a denunciare la scomparsa.
Spetterà all’autopsia chiarire se i killer l’abbiano uccisa in un posto diverso da quello dove è stato trovato il corpo, oppure se l’abbiamo costretta a scavare la fossa, fatta inginocchiare, e poi freddata con tre colpi. Uno al cuore e due alla testa.
Molto probabilmente, Giò – che ha subito un’autentica esecuzione – è stata assassinata da persone che conosceva e che probabilmente le hanno teso una trappola.
Si scava, quindi, nel passato della vittima per scoprire se avesse ricevuto “avvertimenti” o minacce tali da lasciar presagire la fine alla quale stava andando incontro. Tuttavia, sembra prendere sempre più forma la pista dello «sgarro».
Giò potrebbe non aver pagato una partita di droga oppure può averla acquistata da pusher di un mercato parallelo, magari gestito da clan rivali. Inoltre, sembra che la donna pretendesse di mantenere alcuni privilegi e che volesse avere voce in capitolo nelle questioni dello spaccio.
Intanto, l’attività investigativa ha consentito di individuare la persona che avrebbe tentato di nascondere il cadavere sotto terra, peraltro riuscendoci solo parzialmente.
L’uomo –la cui identità non è stata resa nota – è stato indentificato grazie alle impronte digitali, lasciate sulla pala e agli altri attrezzi, utilizzati per scavare la fossa per la vittima e anche dalla posizione del gps del suo cellulare.