4 anni e 4 mesi di reclusione: tanto vale la vita di un ragazzo che si apprestava a compiere 17 anni per la “giustizia” italiana.
E se, quella notte lungo le strade del Rione Traiano, le cose fossero andate in maniera diversa e a sparare un colpo accidentale contro un carabiniere nell’ambito di un inseguimento sarebbe stato un ragazzo di 16 anni, quale sarebbe stato il verdetto decretato, oggi, in aula?
La risposta, spoglia di demagogia è retorica, è scontata ed è ben lontana da “4 anni e 4 mesi”.
La legge NON è uguale per tutti. È stupido rimanere aggrappati a fallaci chimere e bendarsi gli occhi dinanzi al cinismo della realtà.
Davide, fin da subito, è stato “condannato” da quella gogna mediatica insorta a ridosso della concitata e controversa vicenda che ha portato alla sua morte.
Davide ha pagato con la vita e dopo la vita il prezzo della pesante ipoteca che grava sui contesti forgiati a immagine e somiglianza del Rione Traiano, quelle terre di nessuno dove alle forze dell’ordine è richiesto di intervenire per “contenere”, per “limitare i danni”, come fanno i pastori al cospetto dei lupi che minacciosamente gironzolano intorno al gregge, spingendo, con forza, le pecore nel recinto. Per il loro bene, per sventare il pericolo.
Quella sera, però, Davide non era né lupo né pecora.
Davide era un ragazzo del Rione Traiano, in sella ad uno scooter privo della copertura assicurativa, sprovvisto di casco e in compagnia di altri due coetanei. I tre non si fermano all’alt, infrangono la legge e rendono legittima l’insorgenza di quell’inseguimento che, inspiegabilmente, sfocia nel ferimento mortale di Davide, raggiunto da un proiettile all’altezza dell’ascella sinistra. Un dato di fatto che mal si sposa con la tesi del “colpo accidentale”, ma questo, ormai, appare un elemento superato al cospetto di un processo che fin dalle prime battute ha palesato il suo prioritario intento: “contenere”,” limitare i danni”.
Si fa sempre più fatica a distinguere i “buoni” e i “cattivi” e scoraggia la speranza di appellarsi alla “giustizia” al cospetto di conclamate ingiustizie, capaci di sortire danni irreversibili. Come quella che ha sancito la morte di una giovane vita.
Il pm aggiunge un anno alla pena richiesta, applicando una sorta di magro “principio di compensazione” volto più ad alleggerire le coscienze che a ringalluzzire la pena.
Sbaglia, a sua volta, la madre di Davide Bifolco. Sbaglia “la forma” della quale si avvale per rilanciare la discutibile sentenza che vorrebbe conferire giustizia alla morte di quel figlio, ucciso da un carabiniere. Lui che viveva nel Rione Traiano dove consuetamente si finisce morti ammazzati per mano della camorra e non delle “guardie”.
Perché dalle sue parole trapela il credo popolare, quello che si rifà ad una giustizia che lava il sangue con il sangue, perché incapace di rilevare nelle leggi dello Stato la forza e il potere di risoluzione necessario per alleviare le pene scalfite nel cuore di una madre costretta a piangere la morte di un figlio.
“La forma”: la chiave sostanziale di tutto, quella che spinge in maniera indotta a consegnare più credibilità a un “d’altronde” che a un “vabbuò” e più dignità ad una divisa che a una morte, anche se la prima si macchia di sangue. Di quello stesso sangue che seguita a grondare dalla ferita letale che ha comportato quella morte che, probabilmente, si vede ancora impossibilitata a trovare pace.
Esistono morti e morti. E giustizia e giustizia.