La storia di Alessia Candito è una di quelle che meglio di prolissi sermoni immortala la condizione di molti giornalisti italiani, minacciati dalle mafie e isolati dai media e dall’opinione pubblica.
La giornalista è stata minacciata a seguito della pubblicazione di alcuni servizi sul giornale per cui lavora, il Corriere della Calabria. Per questo la Questura di Reggio ha deciso di adottare misure di sicurezza nei confronti della cronista e della sua famiglia. A darne notizia è lo stesso quotidiano, che parla anche di alcune mail spedite alla Candito da un ex pentito e ora messe sotto sequestro dalla procura. L’uomo risulta essere “irreperibile” e su di lui “sono in corso accertamenti investigativi”. La protezione assegnata alla giornalista, spiega ancora il Corriere della Calabria, “è legata anche a un’inchiesta dell’antimafia di Reggio Calabria sui clan di Archi e al loro tentativo di riproporre la propria supremazia criminale in città”.
«Non credo di fare niente di speciale. Io faccio il mio lavoro con la massima onestà possibile». Così Alessia Candito, commenta la sua condizione. Alessia ha raccontato i fatti e infastidito qualcuno e per questo oggi lei e la sua famiglia sono al centro di un procedimento cautelare volto a tutelarne l’incolumità.
Nel corso di un’intervista rilasciata a “Il Fatto Quotidiano”, la stessa giornalista ha spiegato di aver ricevuto due tipi di minacce. “Alcune sono state delle minacce ricevute per mail da un ex pentito, che non ha gradito quello che ho scritto su di lui. Altre minacce invece vengono da una informazione confidenziale, pervenuta in procura, e sono relative a degli articoli che ho scritto negli ultimi mesi che riguardano le scorribande dei giovani rampolli di un clan che sono state fatte nei locali della movida reggina.”
Alessia, inoltre, conferisce un’analisi lucida e calzante di quella che è la condizione non solo sua, ma di molti altri giornalisti: “La solitudine c’è, ma penso che il discorso da fare sia diverso. C’è una legittimazione della funzione del giornalista che va avanti da anni. La stampa è nemica ed è una cosa che fino a dieci anni fa nessuno si sarebbe mai azzardato a dire. È chiaro che nel momento in cui tu non hai più una legittimità democratica, una legittimità nella struttura democratica dello stato allora diventi molto più attaccabile. La solitudine del giornalista non sta semplicemente quando si trova di fronte alle minacce. La solitudine del giornalista sta nella situazione generale in cui un cronista giovane in Italia è chiamato a lavorare. E non parlo di me, perché sono fortunata: ho un giornale alle spalle ed è un giornale che ha reagito in maniera univoca è fortissima. Però magari ci sono tantissimi freelance che non hanno neanche questo, che non hanno nessuna tutela, tanto di fronte alle minacce tanto di fronte alle querele temerarie. Soprattutto facendo giudiziaria, capita che ci sia tizio o caio che non gradisce quello che scrivi, quindi ritiene di doverti querelare. Ed è un problema. Ancora più grande il problema è quando ti chiamano in un’azione civile per un risarcimento, perché che fai? Quelle sono le cose che non fanno dormire, perché non c’è nulla che tuteli i giornalisti in questo caso.”
Ancor più acuta è la descrizione che la stessa Alessia fornisce della condizione in cui milita un giornalista che opera in un territorio complesso come la Calabria:
“Queste terre non ti consentono di essere neutrale. Queste non sono terre da sfumature, queste sono zone in cui stai o da una parte o dall’altra. C’è poco da fare. La morte civile e democratica di queste terre sono proprio le sfumature. Il problema della Calabria è che la classe dirigente è completamene compenetrata dalle infiltrazioni mafiose. La cosiddetta zona grigia – e non lo dico io, ma lo dice un magistrato come Nicola Gratteri, che, per lo meno per gli anni che ha di servizio, è un punto di riferimento in zona – è ‘ndrangheta. E non importa che siano avvocati, commercialisti, grandi professionisti: se tu aiuti i clan, è ‘ndrangheta.”
Molto interessante ed indicativa la risposta della giornalista in merito al ruolo che la politica potrebbe assumere in situazioni simili alla sua: “Tendenzialmente se volesse, la politica potrebbe fare molto per tutelare una categoria che viene considerato il nemico giurato numero uno. Sia in termini concreti con una serie di misure legislative, ad esempio per arginare le querele temerarie o per non permettere cose inqualificabile come la condanna di Francesco Viviano. In un paese civile un giornalista condannato al carcere è impensabile. Ma anche sul piano formale. Certe affermazioni sulla stampa, Certe campagne di delegittimazione sui giornalisti dipinti come pennivendoli o come personaggi al soldo di questo o quello sono indecenti. Io non credo di fare niente di speciale. Io faccio il mio lavoro con la massima onestà possibile e non mi sento una eroina, ma solo una persona che lavora onestamente, in primo luogo per potersi guardare allo specchio e dire “io ho fatto il mio”. Ed è anche lo stesso motivo per cui sono tornata a Reggio Calabria. Sono stata fuori undici anni: ho lavorato soprattutto all’estero, in Spagna, in Venezuela, a Cuba, in medio oriente. Poi ho scelto di tornare a Reggio Calabria perché credo che da figlia di questa terra devo portare il mio sassolino per tentare di fare qualcosa per modificare quello che non va. Ma è una cosa che farebbero in tanti se avessero la possibilità di farlo. L’informazione è un’arma potentissima, soprattutto se si muove coesa.”
Guai a definirla “un’eroina”, Alessia Candito è “solo” una giornalista.