Dua, Aws e Asma sono le tre donne che hanno deciso di raccontare la propria vita ad una giornalista del New York Times, Azadeh Moaveni, parlando della loro città, Raqqa, ora roccaforte dell’ISIS – o Al Tanzeem, l’Organizzazione, come viene chiamato lo Stato Islamico dagli abitanti della città.
Queste donne raccontano una storia che ancora non conosciamo, e lo fanno da un punto di vista inaspettato, quello delle donne dello Stato Islamico.
Raqqa, come anticipato, è la capitale del Califfato, la città completamente nelle mani dell’Isis, ma non è sempre stata così. Fino a tre anni fa infatti godeva di una certa libertà: le donne erano indipendenti, indossavano bikini e potevano scegliere il loro compagno. Dua, Aws e Asma, che appartenevano a quella generazione, hanno raccontato al ‘New York Times’ come è cambiata radicalmente la loro vita, sotto tutti i punti di vista.
Raqqa è diventato ben presto un luogo dove le donne sono obbligate a indossare veli tripli – pena le frustate delle poliziotte della brigata Al Khansaa -, dove si può uscire di casa solo se accompagnate da un parente maschio e dove chi non rispetta la sharia rischia decapitazioni e lapidazioni.
Aws e Dua sono due cugine di 25 e 20 anni, l’una studentessa di Letteratura di famiglia borghese e l’altra più povera con il papà contadino. La terza ventenne, Asma, studiava Economia, andava in spiaggia in bikini, aveva lasciato un fidanzato che voleva farle portare il velo. Nel 2014, pur non aderendo all’ideologia dell’Isis, le due cugine hanno sposato due miliziani. In parte perché costrette dai genitori, che potevano così godere di maggiore tutela e in parte perché si erano innamorate. Usavano i contraccettivi perché i loro sposi erano destinati a diventare dei kamikaze, e i figli sarebbero stati un ostacolo al martirio.
Tutte e tre sono andate in contro a un destino comune: si sono unite alla Brigata Al Khansaa, l’unità di polizia femminile, creata per far rispettare le norme della sharia. “Venti frustate per il velo troppo aderente, cinque per il trucco, altre cinque per chi non era docile una volta arrestata“. Tra le vittime anche delle loro amiche.
La brigata Khansaa, prevede un percorso molto duro per l’arruolamento: quindici giorni di addestramento alle armi a tempo pieno, lezioni di religione per approfondire le leggi e i principi dell’Islam. E così inizia il vero lavoro: alcune donne prendono parte alle pattuglie nelle strade della città, altre, come Asma, incontrano le donne volontarie provenienti dai Paesi occidentali per scortarle fino a Raqqa, dove inizieranno anch’esse il proprio training. Infatti, le donne della brigata Khansaa non sono solo siriane: si tratta di inglesi, francesi, tunisine, donne di tutto il mondo.
Il trattamento riservato a ognuna di loro, in ogni caso, non è segnato solo dalla propria nazionalità, ma dipende in parte anche dallo status dei propri mariti, i quali spesso, volontari in missioni suicide, lasciano queste donne vedove e vittime di un destino incerto, dipendente per la maggior parte dall’uomo che lo Stato Islamico sceglierà come loro prossimo consorte. È quello che è successo a Dua: l’Organizzazione l’aveva resa vedova e voleva farlo ancora, facendola diventare “una continua distrazione temporanea per combattenti suicidi. Senza scelta, senza dignità”.
Ma quali sono le motivazioni che spingono le donne ad arruolarsi all’Isis? Non è semplice rispondere a questo quesito, perfino per le tre ragazze interpellate. Una di loro, Asma,confessa: “Per me si trattava di potere e denaro, ma soprattutto potere. Dato che tutti i miei parenti si erano uniti all’Organizzazione, il fatto che anche io prendessi quella decisione non cambiava le cose. Avrei semplicemente avuto più autorità”.
Ma dopo il confronto con la barbarie, l’intolleranza e la violenza, oltre che fisica anche psicologica, dell’ISIS, la fuga è l’unica soluzione che queste donne hanno per sperare in un futuro migliore. Un futuro che, purtroppo, sarà lontano dalla propria terra, lontano dalla Siria, lontano da Raqqa, perché troppo sangue è stato versato su entrambi i fronti, e tornare indietro è ora impensabile. “Chi può sapere quando questa guerra finirà?” dice Asma. “La Siria diventerà come la Palestina; ogni anno, le persone pensano: ‘L’anno prossimo finirà. Saremo liberi.’ E i decenni passano”.