La Polizia di Stato di Caserta ha fermato Carlo Bianco, 31 anni, ritenuto l’attuale reggente della fazione Zagaria del clan dei Casalesi. La squadra mobile ha eseguito un fermo emesso dal pm Giordano della Dda di Napoli anche nei confronti di Giuseppe Catalano, 31 anni, affiliato alla stessa fazione del clan. Sono entrambi accusati di estorsione nei confronti di un imprenditore caseario di Casal di Principe. Mentre un agente di polizia attualmente a piede libero è accusato di aver venduto una chiavetta usb a un imprenditore colluso con la camorra, dopo averla sottratta nel corso di un blitz eccellente.
Una trattativa che sarebbe stata avviata subito dopo il blitz in via Mascagni che portò alla cattura del boss Michele Zagaria.
Era il sette dicembre del 2011, quando dopo quindici anni di latitanza, Michele Zagaria viene tratto in arresto. Un caso solo apparentemente chiuso, dal momento che qualche mese fa, è la Procura di Napoli a riaccendere i riflettori su questa vicenda. Siamo agli arresti dell’operazione «Medea», quelli sulla gestione delle acque, quando scoppia il caso legato all’arresto dell’imprenditore Orlando Fontana: stando all’accusa, avrebbe versato 50mila euro nelle mani di un agente di polizia infedele, che gli avrebbe «riconsegnato» il supporto informatico, che poi sarebbe stato consegnato a quelli del clan Zagaria.
Si delinea così uno scenario inquietante, tutto da sondare per gli inquirenti, ma che oggi fa registrare un nuovo tassello, grazie al deposito di una memoria della Procura di Napoli, in vista dell’appello fatto dai legali di Fontana.
Nel suddetto fascicolo spunta il nome di un agente indagato, uno stretto collaboratore dell’ex capo della squadra mobile di Napoli, il primo dirigente Vittorio Pisani, che, tuttavia, in questa vicenda non è mai stato toccato formalmente da indagini. C’è il nome di un agente, anche se la storia della pen drive è riconducibile non a una «trattativa» tra lo stato con il camorrista, ma a una sorta di mercimonio privato di basso cabotaggio. È quanto emerge dalla testimonianza messa agli atti da una donna che in quella casa di via Mascagni ci ha vissuto e che ricorda la disposizione (oltre che l’uso) dei computer di famiglia. Stando alla ricostruzione della testimone, la pen drive esisteva davvero, era a forma di cuore ed era costellata di brillantini tipo Swarovski. Ma è sempre la donna ad aggiungere particolari: era un supporto informatico usato dalla figlia, conteneva musica e canzoni, niente altro. Viene meno, al momento, l’idea di una sorta di archivio personale dell’ex superlatitante, anche se non è chiaro se la pen drive stesse nel covo di Zagaria o nella parte superiore della casa. Restano in piedi le accuse a carico del presunto agente corrotto. Avrebbe agito da solo, per incassare una discreta somma di denaro, quanto basta per restituire la pen drive sottratta nel corso del primo ingresso nel bunker di via Mascagni. Un’inchiesta che resta aperta, che fa i conti anche con testimonianze incrociate: come il confronto tenuto dinanzi ai pm tra Fontana e l’imprenditore Maurizio Zippo, a sua volta tirato in ballo nel corso di una ormai famosa intercettazione tra i fratelli imprenditori Raffaele e Augusto Pezzella. Un confronto in cui i due interlocutori sono rimasti sulle proprie posizioni, mentre tocca ora alla Procura di Napoli tirare le somme anche nei confronti del presunto agente corrotto.
Agente che la testimone ha dichiarato senza alcun indugio e titubanza di essere in grado di riconoscere.