Finisce con la vittoria degli uomini in divisa il braccio di ferro tra forze dell’ordine, il superlatitante Pasquale Sibillo e i clan rivali.
A cinque mesi di distanza dal maxi-blitz di Forcella, il capo della cosiddetta “paranza dei bimbi” è stato tratto in arresto, lontano dai vicoli del quartiere dove professava la sua egemonia.
Quello che ha portato all’arresto di Lino è un blitz frutto della conoscenza del territorio e delle abitudini della famiglia Sibillo.
Lo hanno preso a Terni, lontano da quelle suggestioni che lo ritraevano divincolante lungo le condotte fognarie di Napoli sotterranea piuttosto che in sella agli scooter “potenti” pronto a manifestare la sua egemonia sul quartiere.
Al momento della cattura Lino era in auto, in una Smart, in compagnia di una cugina. Aveva trascorso questi ultimi giorni in compagnia di alcuni parenti, conducendo una vita apparentemente tranquilla, da ragazzo “normale”. Aspettava notizie da Napoli, era spesso collegato con i siti dei giornali partenopei, da lì per Lino era tutto più facile, riusciva a muoversi senza dare nell’occhio.
Ad onor del vero, sbarbato, con una capigliatura diversa e dimagrito di circa dieci chili, era difficile accostare e ricondurre quella sagoma a quella del temuto capo dei baby-camorristi.
Lino poteva tranquillamente passare inosservato, in una realtà come quella. Un ragazzo qualunque che poteva finanche trarre un solido alibi da quell’aspetto “paffutello” che gli conferiva un’aria innocua.
Invece, quegli abiti casual vestivano una delle figure di maggiore rilievo nell’ambito della faida di camorra che tiene in ostaggio il centro storico partenopeo, se non, addirittura, il fautore principale. Indagato per associazione camorristica, droga, tentato omicidio di Luciano Barattolo, Lino Sibillo è difatti il protagonista indiscusso della faida contro i Buonerba.
Una sorta di sliding doors inconsapevole quella proposta ed esibita dal boss appena 24enne: nascosto dietro lo sterile alibi dell’aspetto da bravo ragazzo, personificando una sorta di “opportunità negata a sé stesso” nel momento in cui ha scelto di impugnare armi, illegalità e crimine per “fare carriera” nell’ambito del clan da lui stesso intelaiato, eppure costretto dalle circostanze a professare la sua reale identità.
«Sì, d’accordo, sono io, mi chiamo Pasquale Sibillo, il ricercato napoletano»: questo è quanto ha dichiarato il giovane Sibillo, al cospetto degli uomini in divisa che l’hanno tratto in arresto, sancendo il termine della sua lunga e suggestiva latitanza. Sfuggito in diverse circostanze alla cattura e spesso al centro di ipotesi assai suggestive, Lino Sibillo nel corso di questi cinque mesi non ha mai smesso di essere oggetto d’attenzione, da parte dei media, dei clan rivali che lo volevano morto e soprattutto perennemente nel mirino delle forze dell’ordine che mettendo a segno quest’arresto hanno conseguito un risultato non solo prestigioso, ma assai rilevante.
La cattura di Sibillo infligge una stangata probabilmente definitiva alla “paranza dei bimbi” che si vedono privati del loro guru, disegnando un epilogo forse inaspettato, anche per le fazioni avverse.
24 anni, una moglie e due figli, una carriera criminale già più che ben delineata: si sintetizza così la vita del capo dei baby-camorristi.
Lino aveva due obiettivi ben precisi da perseguire: vendicare la morte del fratello Emanuele, ucciso lo scorso due luglio in un agguato, nell’ambito del quale era stato colpito alle spalle. Pertanto, era preciso compito di Lino, vendicare quella morte, maturata per giunta attraverso quella modalità d’esecuzione che secondo il gergo camorristico si tributa agli “infami”.
L’altro intento del capo dei baby-camorristi era riconquistare l’egemonia nell’ambito delle estorsioni e delle piazze di spaccio, specie dopo i recenti arresti che hanno ridimensionato il clan Buonerba.
E, invece, Lino non poteva prevedere che la sua corsa si sarebbe arrestata così, proprio ieri. La vacanza fuori porta e il cambio di look non sono bastati per sottrarlo al suo destino.
A consegnare la prova certa della sua identità è stato un tatuaggio che riproduce i quattro assi delle carte da poker, all’altezza dell’avambraccio. Così, quando i carabinieri gli hanno chiesto di alzare la manica del maglione e si sono ritrovati al cospetto di quel tatuaggio, hanno avuto la conferma di aver fatto “poker”. Le forze dell’ordine hanno vinto la partita e Lino Sibillo è stato consegnato alla giustizia.