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Le strategie della propaganda: come riconoscere le trappole del potere.

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
30 Ottobre, 2015
in Da Sud a Sud
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Le strategie della propaganda: come riconoscere le trappole del potere.
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potere2R375_27mar09«Quando si tratta di controllare gli esseri umani non c’è miglior strumento della menzogna. Perché, vedete, gli esseri umani vivono di credenze. E le credenze possono essere manipolate. Il potere di manipolare le credenze è l’unica cosa che conta» (Michael Ende).

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Non occorre scomodare Gramsci, Adorno o qualsiasi altro grande studioso di società e potere, per intuire una realtà evidente: il ‟potereˮ ha, prima di qualsiasi altra cosa, bisogno di ‟consensoˮ e farà di tutto per costruirlo. Una delle vie che lo Stato italiano utilizza a tale fine è quello di mostrare – nei libri di scuola e in tv – il corso della Storia, delle diverse vicende militari e delle scelte politiche che ci hanno condotto all’hic et nunc, come una sorta di realizzazione di un ‟disegnoˮ sovrastorico provvidenziale, per cui la Storia si è svolta nel migliore-dei-modi-possibili, di conseguenza noi tutti viviamo nel ‟migliore-dei-mondi-possibiliˮ, non un mondo perfetto, ma comunque il migliore dei possibili. Va da sé che questa operazione propagandistica sia applicata massimamente per l’atto di nascita dello Stato italiano, che in questo modo celebra e ‟santificaˮ – sempre laicamente parlando – sé stesso. Il nostro stato di cose, il nostro ‟mondoˮ, sebbene ci possa apparire assai ingiusto ed imperfetto, resta comunque il migliore dei possibili ed il messaggio di fondo che troviamo sotto le diverse vicende storiche è che la Storia stessa avesse un percorso obbligato, un destino (come se la Storia avesse un destino…).

Troviamo quindi sui testi ‟scolasticiˮ (in senso ampio) una sorta di storia dello Spirito che si realizza, che attraverso contrasti, scissioni, dolori arriva al fine della Storia. È evidente la funzione propagandistica e l’impostazione (più o meno consapevole) della filosofia hegeliana in questa ‟visioneˮ, frutto proprio di quella filosofia che si afferma nell’Italia unitaria con l’insegnamento e l’azione ministeriale dei fratelli Spaventa e che raggiunge il suo culmine e massima teorizzazione con Croce, che non a caso proprio dal controverso Silvio Spaventa fu praticamente adottato.

Trova spazio, quindi, nei libri di storia scolastici, nelle celebrazioni ufficiali, in una certa retorica ‟nazionaleˮ, più che la ricostruzione oggettiva e corretta delle vicende del passato, una giustificazione del presente, e ciò avviene anche attraverso la costruzione di miti pseudoantropologici (tra gli altri, Lombroso e discepoli ne sono stati i teorizzatori ufficiali): il meridionale-fannullone contro l’italiano settentrionale che-si-rimbocca-le-maniche, il meridionale-brigante contro l’italiano settentrionale onesto e laborioso, un Sud atavicamente povero e arretrato rispetto ad un Nord ricco ed avanzato in tutti i campi, e così via.

Come ha ben sottolineato anche lo storico J. Davies (Università del Connecticut) per difendere il Risorgimento e riaffermare l’unità dello Stato senza imputare alla nuova Italia, soprattutto alla classe politica liberale che ne era l’artefice e la dirigenza politica ed economica, le responsabilità delle condizioni del Sud, si cominciò a riscrivere la storia andando a ritroso e si difese il Risorgimento sostenendo che la ‟questione meridionaleˮ fosse un’eredità del passato. Il principale artefice di questo schema interpretativo fu uno dei principali esponenti della cultura di origine risorgimentale, Benedetto Croce.

La responsabilità politica di situazioni attuali viene così stornata su vaghe e fantasiose entità alternative: le Costituzioni di Melfi del XIII sec. invece dei Comuni centro-settentrionali (tra l’altro: questi ultimi in preda all’anarchia e alle sanguinose lotte di potere fra potentissime famiglie rivali), l’assenza al Sud degli etruschi ed altre amenità simili, senza ovviamente alcuna seria analisi ed alcuna prova scientifica di causalità.

Mi sembra senza dubbio il caso contemplato in una delle interessanti ‟10 regoleˮ pseudochomskyane sul controllo sociale: quella che prevede di rafforzare il senso di colpa, di imputare al cittadino d’essere il solo responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo, in tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema politico, l’individuo si auto svaluta ed inibisce ogni azione di protesta.

La cultura politica italiana ha creato dunque un pensiero unico, un pensiero che non metta in discussione lo Stato sabaudo così come è stato realizzato, nonostante tutto. Scuola, Università, ufficialità di Stato sono state blindate su questo pensiero unico.

Ho notato, inoltre, in questa ‟costruzioneˮ della Memoria collettiva una recente svolta, dal ‟bassoˮ e dall’ ‟altoˮ: sebbene l’ufficialità non metta mai sostanzialmente in dubbio tutti i pregiudizi antimeridionali risorgimentisti e l’obsoleta zavorra di retorica (esempio lampante, ancora una volta, la ‟divulgazioneˮ sanremese ad usum tele-morientis del comico Benigni), si era vista, fino alla metà del 2012, qualche sporadica e sussurrata voce fuori dal coro all’interno dei canali mediatici ‟ufficialiˮ.

Proprio a metà 2012, durante la finale di Coppa Italia giocata a Roma fra Napoli e Juventus, i tifosi partenopei fischiarono sonoramente in diretta l’inno dello Stato italiano, rivendicando un fortissimo orgoglio identitario. Per la prima volta una visione ‟alternativaˮ, che rifiutava la retorica ufficiale risorgimentista, era diventata di dominio pubblico.

Dopo quei fischi di un intero stadio, che non si potevano catalogare come casi isolati, la classe politica italiana, a cominciare da Giorgio Napolitano, che però già da tempo aveva messo in atto un insistente recupero di immagine dei Savoja, con varie, anche discutibili, iniziative, ha di fatto zittito radicalmente qualsiasi voce fuori dal coro o, quando non ha potuto,  la ha denigrata.

Ho notato in particolare come questa operazione di costruzione di pensiero unico venga operata ‟dall’altoˮ profilando mediaticamente un modello di intellettuale ‟perfettoˮ, divulgante il dogma ufficiale, che, chi aspira a sentirsi ‟intellettuale/intelligenteˮ o comunque di levatura superiore alla propria, tenta di imitare o somigliare, ripetendo le stesse cose. I media fanno passare l’immagine, l’idea che chi dice determinate cose sia automaticamente ‟intellettualeˮ: in un colpo solo, et voilà, todos caballeros!

I personaggi pubblici che incarnano questo modello diventano i megafoni del potere. L’esempio più eclatante a questo proposito è proprio Roberto Benigni (credo tutti ricordino a tal proposito le sue prolusioni nazional-televisive), e via via a scendere vari altri anchorman televisivi, tutti – ça va sans dire – molto ben ricompensati.

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