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Agguato Nunzia D’Amico: “hanno colpito il punto debole più forte del clan”

Luciana Esposito di Luciana Esposito
12 Ottobre, 2015
in Cronaca, In evidenza
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Agguato Nunzia D’Amico: “hanno colpito il punto debole più forte del clan”
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10302045_951545264876809_6539383078526455446_nIn un clima di calma apparente, il Rione Conocal ha accolto l’inizio di una nuova settimana, lasciandosi alle spalle un week-end concitato.

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Ma è davvero così?

Un episodio cruciale e cruento, come l’agguato inferto ad una donna e per giunta a capo di un’organizzazione criminale, può davvero rimanere impunito?

Nell’aria aleggia una consapevolezza che con il susseguirsi delle ore si fa sempre più pesante e perentoria: l’agguato di Nunzia D’Amico segna un punto di non ritorno su più fronti.

In primis, sentenzia in maniera inequivocabile che “la nuova camorra”, quella fatta di tatuaggi, capigliature stereotipate e feroci impennate in sella a scooter di grossa cilindrata, non guarda in faccia a niente e a nessuno, rivelandosi capace di rinnegare anche quella tacita regola imprescindibile, – fino allo scorso sabato – dettata dal più antico codice d’onore della camorra e che imponeva di tributare rispetto alle donne.

Un’immunità ufficialmente decaduta per il gentil sesso: il turpe omicidio della madrina del clan D’Amico, lo sentenzia ferocemente.

E, soprattutto, quell’agguato, consumatosi in pieno giorno, nel bel mezzo di un rione che da tempo immemore personifica il fulcro del potere del clan D’Amico, rappresenta un duro e perentorio “sfregio” all’onore dell’organizzazione, colpita al cuore, nei sentimenti più importanti.

Il killer ha scaricato una pioggia di pallottole contro “il punto debole più forte” del clan D’Amico.

Una donna, in quanto tale, apparentemente “intoccabile” e al contempo detentrice dello scettro del potere del clan: è Nunzia che comanda “i guagliuncielli” ordinando “servizi” e “imbasciate” ed è ancora lei a fornirgli le armi. C’è lei a capo di tutto e tutti, da quando lo scorso marzo il clan fu amputato da ben 60 arresti, vedendosi così privare non solo del boss Giuseppe D’Amico detto “fravulella”, ma di molti altri uomini chiave dell’organizzazione.

Da allora pensava a tutto Nunzia: una donna irriverente e “smargiassa” che oggi viene ricordata anche e soprattutto come una madre e una zia amorevole, anche dai giovani “soldati” non legati direttamente a lei da rapporti di parentela, ma parimenti devoti alla madrina del clan e che adesso ne piangono la scomparsa, disperandosi per il fatto che non potrà più commissionargli “servizi”.

Amici, parenti, conoscenti, hanno ricordato e commemorato Nunzia soprattutto condividendo l’articolo da me scritto ieri, in cui paragonavo il suo agguato a quello di Donna Imma Savastano, protagonista di “Gomorra-La Serie”, barbaramente freddata in un agguato di similare ferocia. Ma quella era una fiction.

Un omicidio che demarca a chiare lettere le intenzioni dei mandanti: i De Micco vogliono affermare la loro egemonia sul territorio. Ipotizzano l’incipit di una nuova era, dopo il definitivo declino del clan Sarno, “la paranza di Bodo” sogna di appropriarsi dell’intero quartiere. Allontanando dalla scena il clan D’Amico, i De Micco non solo otterrebbero il totale controllo sulle piazze di spaccio dello quartiere e sulle altre attività illecito, ma potrebbero “pensare in grande”.

Invero, il clan De Micco è costituito da soldati giovani, giovanissimi, molto simili nella forma mentis e nelle modalità d’azione alla “paranza dei bimbi”.

Proiettando lo sguardo verso il poco distante centro storico, infatti, ci si accorge che tra i vicoli di Forcella a tenere banco è uno scenario camorristico assai affine a quello che si sta consumando tra le mura del quartiere Ponticelli.

La “paranza dei bimbi” contro “la paranza dei capelloni”, il clan di Fravulella contro il clan di Bodo.

Sibillo, Buonerba, D’Amico, De Micco: quattro organizzazioni criminali che trovano nell’età media molto bassa delle loro reclute e nel livore di conquistare lo scettro del potere criminale, gli unici aspetti in comune.

O forse no.

Forse, scavando nelle loro vite, quei ragazzi, giungerebbero a scoprire di aver pianto morti affini. Morti di parenti spirati per effetto di quell’escalation di violenza e di aver versato le medesime lacrime miste d’incontrollabile rabbia frammista a dolore “vivo”.

Forse, svestendosi della sfrontata “guapparia” dei camorristi, scoprirebbero di essere dei ragazzi. Semplicemente.

Forse, sgomberando la mente da quel cieco ed affamato desiderio di vendetta, potrebbero riuscire a distinguere nitidamente il destino al quale vanno incontro: una vita dietro le sbarre, relegata in una fatiscente e misera cella o una morte precoce, feroce, capace di sancire la definitiva fine di tutti i giochi.

Perché, sia chiaro, la storia lo comprova: non esiste un boss capace di condurre a lungo la vita che sognano e alla quale aspirano i “follower della camorra”, quella costellata da lusso, soldi, potere, belle donne.

Non è Scarface, né Gomorra: è la trama che la vita reale puntualmente impone alle “storie di camorra”.

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