Quello che mi lega a Carmelo Imbriani è un ricordo eccezionale, intriso di un affetto infinito, vivo e sincero, frammisto ad una commossa emozione che sa farsi spazio tra parole e lacrime, tutte le volte che riaffiora.
Quello che mi lega a tutta la famiglia Imbriani è un sentimento forte. Proprio l’altro giorno ho incontrato i suoi genitori e ogni volta che ci rivediamo, non possiamo fare altro che perderci in un sincero e commosso abbraccio per allontanare l’amarezza che ci devasta al cospetto di quella morte che non abbiamo ancora digerito.
Voglio raccontare chi era Carmelo, riportando due episodi.
Il primo è gelosamente custodito anche nel cuore di mia moglie e risale all’epoca in cui Carmelo aveva all’incirca 14 anni. Accompagnato dalla madre, venne a sottoporsi ad una visita allo studio che avevo aperto da poco, proprio sotto casa mia. All’epoca militava negli allievi del Napoli e lo staff medico gli aveva consegnato un verdetto insindacabile: in virtù del distacco dell’ischio che gli era stato diagnosticato, non poteva più giocare a calcio.
Dopo averlo visitato, lo rassicurai esternando le mie riserve in merito al proseguo del suo futuro da calciatore. Difatti, sotto la mia vigile guida, Carmelo iniziò un programma di terapia che lo portò alla completa e piena guarigione. Tuttavia, per lo staff partenopeo, quel brillante recupero rappresentava uno smacco troppo grande da digerire, così Carmelo dovette fare i conti con la decisione maturata dal settore giovanile di non integrarlo nella rosa. Ma Carmelo era fatto così, è sempre stato fatto così: non perdeva mai di vista le cose importanti e lottava come un guerriero per ottenere ciò che voleva. Carmelo andò lì e mettendosi contro tutto e tutti alla fine l’ha spuntata: riuscì a reinserirsi nel gruppo di allenamento. E seppe anche prendersi delle belle soddisfazioni disputando il campionato giovanile. Tra le tante cose, vinse il prestigioso Trofeo Beppe Viola.
Da quel momento in poi, ogni domenica sera, intorno alle 19-20, Carmelo mi telefonava per raccontarmi com’era andata la partita che aveva disputato. Quando la domenica a quell’ora squillava il telefono, mia moglie puntualmente esclamava: “Questo è Imbriani!”
Questo lascia comprendere che Carmelo non l’ho vissuto solo io: mia moglie, mio padre, quando avevo lo studio sotto casa hanno avuto modo di conoscerlo per quello che era: una persona di una bontà infinita e non lo dico per onorare il formale principio secondo il quale, quando si passa a miglior vita, diventiamo tutti buoni. Carmelo lo era davvero. Era davvero una persona speciale e per me e per la mia famiglia era come un figlio.
La sua moralità e bontà d’animo, la capacità di essere riconoscente a tutti quelli che gli sono stati vicino, nella vita di sempre, così come nel periodo della malattia, la sintetizzo così: anche durante gli anni in cui ha vissuto l’ascesa nel mondo del calcio, ogni domenica, alla fine della partita, alla solita ora, mi telefonava per raccontarmi com’era andata.
Allo stesso modo, non dimenticherò mai la motocicletta verde che regalò a mio figlio quando ha compiuto un anno. Un uomo capace di gesti semplici, ma fatti con il cuore e che sapevano lasciare il segno: questo era Carmelo.
Quando ero il medico sociale del Bari, a Carmelo fu diagnosticata un’ernia del disco. Anche in quel caso mi interpellò e volle che fossi io a prendermi cura di lui. Questo lascia capire che Carmelo non ha mai smesso di essere quel ragazzino che venne a farsi visitare da me la prima volta ed è diventato adulto, senza cambiare di un briciolo la sua essenza, il suo modo di essere.
L’altro episodio che ricordo con particolare commozione è legato al periodo della malattia. Era gennaio e Carmelo era già ricoverato a Perugia, mi telefonò suo fratello Gianpaolo per riferirmi che Carmelo voleva vedermi. Ero in trasferta con il Napoli a Firenze e quando Edinson Cavani seppe che stavo andando da Imbriani, mi consegnò una maglietta da portargli in dono, a dimostrazione della grande solidarietà che la squadra gli ha manifestato in quel momento tanto difficile. Gianpaolo venne a prendermi in auto a Firenze e quando entrai nella stanza di Carmelo, lo trovai in compagnia di sua figlia che cercava di saltare sul letto per abbracciarlo.
Carmelo non mangiava, era straziato dalla sofferenza e proprio non riusciva a farlo. Allora, gli dissi: “Carmè, ti ricordi quando facevamo le terapie per tornare a farti giocare? Ecco, anche adesso devi agire come se stessi facendo una terapia. Oggi mangi mezzo cucchiaio di yogurt, domani uno, dopodomani due.” Dopo due giorni mi telefonò sua madre per dirmi che Carmelo aveva iniziato a mangiare.
Carmelo sentiva suo il mio centro di Cerreto Sannita, aveva un rapporto splendido e molto forte anche con i ragazzi dello staff medico del Napoli che lavoravano lì con me. Ogni lunedì veniva ad allenarsi al centro e non è mai mancato alla festa di Natale che ogni anno organizziamo per i bambini, ai quali portava un sacco di regali. Il centro per Carmelo era come una creatura sua, rappresentava la struttura fisica che incarnava le nostre rispettive e contemporanee crescite: la mia come dottore, quella dei ragazzi come fisioterapisti e quella di Carmelo, prima come calciatore e poi come allenatore.
Ero l’uomo più felice del mondo quando ha iniziato la sua carriera da allenatore. Non dimenticherò mai la telefonata che mi giunse mentre era in ritiro con la squadra, anche in quell’occasione cercò il mio supporto: “Dott., questi non ci stanno capendo niente… dicono che ho la polmonite”, mi disse. Lo rassicurai dicendo che ne avremmo riparlato dopo la diagnosi dei medici. Il verdetto fu quello che tutti conosciamo. Carmelo fu ricoverato nel miglior centro, mi sono attivato per quello che potevo, ma a Perugia era nelle migliori mani auspicabili.
Era un uomo munito di un’enorme fedeltà intellettuale. Non si è mai scomposto, non ha mai svilito o cambiato il suo modo di essere e questo, in un mondo confusionario e distratto come quello del calcio, rappresenta un’autentica rarità. Carmelo aveva una grande personalità, con i suoi saldi ed inamovibili riferimenti: la famiglia, l’amicizia, la lealtà, l’onestà, l’integrità. Era sempre disposto a giustificare gli altri, non ricordo mai di aver sentito Carmelo parlar male di qualcuno. Ed anche questo aspetto, in un mondo come quello in cui viviamo, rappresenta un’autentica rarità.
Carmelo era un uomo semplice.
Carmelo era un uomo semplicemente speciale.
Dott. Alfonso De Nicola