È il giorno della partita più attesa dell’anno: è il giorno di Napoli-Juventus.
L’acerrima nemica, la “Vecchia Signora” bianconera, valicherà le porte del tempio di Fuorigrotta per conferire mordente ed impeto all’ennesimo capitolo dell’”eterna sfida”.
I fari dell’attenzione, pubblica e mediatica, torneranno nuovamente ad accendersi su Fuorigrotta, per ragioni profondamente diverse rispetto a quelle che hanno evocato tanto clamore e dolore all’interno delle mura dello stesso quartiere, nel corso degli ultimi giorni.
L’attenzione si riversa su Fuorigrotta per assistere ad uno spettacolo sportivo capace di evocare fascino e suggestioni che personificano un tassello cruciale della tradizione culturale de popolo partenopeo e, in virtù di quanto verificatosi proprio lì, a due passi dal san Paolo appena 48 ore fa, dovrebbe imprimere nei cuori azzurri un forte ed imbarazzato senso d’inadeguatezza.
Come si può pensare al calcio, in un momento tanto concitato per la città?
In una città come Napoli, le regole dettate dal buon senso, non hanno mesi trovato concreta applicazione, complice quel passionale e folkloristico impeto che, nel bene e nel male, traghetta le anime verso situazioni ed emozioni che possono apparire spropositate, come puntualmente accade quando si scruta qualcosa o qualcuno con il distaccato “sguardo esterno”.
Il calcio è da sempre, per questo popolo, il canale più paradossale ed improprio e, al contempo, il più partecipato e sentito da percorrere per conseguire la tanto agognata rivalsa sociale.
I napoletani vivono di calcio, principalmente e sostanzialmente.
Vincere una partita come questa rappresenta una conquista che ricopre un valore ben più elevato dei “semplici” tre punti in palio: è il riscatto morale che assopisce decenni di mortificazioni di vario genere; è il vanto che rende legittimo il desiderio dei bambini di giocare per strada indossando la maglia del Napoli, allontanando il millantatore fascino ricoperto dai colori delle “signore del Nord”; è un comodo espediente per accantonare, anche se solo per 90 minuti, vicissitudini, fatiche, privazioni, stenti, rinunce, criticità, difficoltà, sofferenze per vivere una notte da sogno, nell’ambito della quale quei beniamini tanto osannati ed amati sono chiamati a concretizzare nella realtà quel forte, sentito e condiviso desiderio. È la motivazione più forte e vibrante capace di sancire che vale ancora la pena di “essere napoletani”.
No, non si può spiegare lo stato d’animo che ricopre Napoli nel corso degli attimi che precedono questa partita: è una dimensione senza spazio e senza tempo, avulsa dalle dinamiche politiche, criminali e sociali che scandiscono il susseguirsi delle lancette.
Fuori luogo, infelice, spropositata, ridicola, opinabile, illegittima: queste ed infinite altre sfumature può assumere agli occhi dello “straniero osservatore” quel rigoglioso senso d’appartenenza, orgogliosamente ricoperto dalla maglia azzurra.
Del resto, Napoli non è una città che esige d’essere capita. Pretende e rivendica di essere “sentita”.