L’ultima scena di morte, figlia della disperazione frammista all’istinto di sopravvivenza, è quella che ritrae il corpo esanime dell’eritrea Seyenne. Una ragazza di appena 16 anni, secondo alcuni, già 17enne secondo altri, novizia maggiorenne, secondo altri ancora. Dettaglio trascurabile quello relativo agli anni vissuti dalla giovane, al cospetto di quelli che brutalmente sono stati falciati da un Suv nel bel mezzo della circumvallazione esterna di Giugliano.
Si era messa in viaggio dall’Eritrea, in fuga dalla fame e dalla miseria. Un percorso durato 10 giorni. Dall’Eritrea alla Libia, poi l’imbarco su chissà quale carretta del mare, probabilmente con due sorelle. Infine l’arrivo a Palermo. Lì gli smistamenti, la prima accoglienza e la decisione di trasferirla a Giugliano, nel centro accoglienza di Ponte Riccio.
Giunta a Napoli, insieme ad un altro gruppo di coetanee, pare avesse deciso di spostarsi e di raggiungere la capitale dove risiedono alcuni conoscenti e forse parenti.
L’inesperienza, la paura, il timore però ha giocato un macabro scherzo. E’ bastata una sirena delle forze dell’ordine, che percorreva l’asse viario, per motivi assolutamente estranei alla questione migranti, per far imprimere terrore nella marcia delle ragazze. Così hanno cominciato a fuggire e d’improvviso si sono ritrovate al centro della carreggiata. In quell’attimo, in quell’istante sono sopraggiunte due auto ed un camion. Inutile frenare, inevitabile l’impatto. La giovane è morta sul colpo sotto gli occhi di quattro amiche e due sorelle. Seyenne ha provato ad attraversare la circumvallazione esterna di Napoli, strada ad alta velocità, scavalcando in un tratto protetto da guard-rail. E’ sopraggiunto un Suv che ha provato a frenare, ma inutilmente: l’impatto è stato mortale. Il gruppo delle eritree era giunto quella stessa mattina nel centro di accoglienza di Giugliano. Le giovani si sono trattenute lo stretto necessario per rifocillarsi, e poi si sono subito allontanate a piedi nel tentativo di arrivare alla stazione ferroviaria di Napoli, distante una trentina di chilometri. Secondo quanto riferito dagli operatori del centro, il gruppo di giovani aveva manifestato difficoltà nel trovarsi sotto lo stesso tetto con migranti di alcuni gruppi etnici già ospitati nella struttura.
Da lì la scelta di intraprendere un nuovo cammino, avventurandosi lungo una strada senza ritorno.