La leggenda napoletana di Colapesce, anche conosciuto come il Pesce Nicolò, ha origini antichissime e non ben definite.
Le prime attestazioni della leggenda sono nel XII sec. del poeta franco provenzale Raimon Jordan, che canta di un “Nichola de Bar” che viveva come un pesce.
Nella tradizione napoletana Cola (Nicola) Pesce o Pesce Nicolò era un ragazzo con una grande passione per il mare. Amante anche dei pesci, ributtava in mare tutti quelli che il padre pescava in modo da permettere loro di vivere. Maledetto dalla madre esasperata dal suo comportamento, il ragazzo si trasformò in una sorta di pesce. Il ragazzo passava sempre più tempo in mare usando, per lunghi spostamenti, il corpo di grossi pesci, dai quali si faceva inghiottire, per uscirne all’arrivo, tagliandone il ventre.
L’origine tardo pagana della leggenda è riportata da Benedetto Croce in Storie e leggende napoletane:
Niccolò Pesce era un fanciullo che amava starsene sempre in mare, facendo gridare sua madre, la quale, un giorno, nel calore dello sdegno gli gettò la maledizione, che “potesse diventar pesce“, e da pesce o quasi pesce egli visse da allora, capace di trattenersi ore e giorni immerso nelle acque, come nel suo proprio elemento, senza bisogno di risalire a galla per respirare.
E a percorrere in mare lunghe distanze rapidamente Niccolò Pesce usava l’astuzia di lasciarsi ingoiare da taluno degli enormi pesci che gli erano familiari e viaggiare nel loro corpo, finché, giunto dove bramava, con un coltellaccio che aveva sempre seco, tagliava il ventre del pesce e usciva libero nelle acque, a compiere le sue indagini.
Una volta il re fu preso da desiderio di sapere come fosse fatto il fondo del mare; e Niccolò Pesce, dopo lunga dimora, tornò a dirgli che era tutto formato di giardini di corallo, che l’arena era cosparsa di pietre preziose, che qua e là s’incontravano mucchi di tesori, di armi, di scheletri umani, di navi sommerse.
Un’altra volta discese nelle misteriose grotte di Castel dell’Ovo, e ne riportò manate di gemme.
Ancora il re gli commise d’indagare come l’isola di Sicilia si regga sul mare, e Niccolò Pesce gli riferì che poggiava sopra tre enormi colonne, l’una delle quali era spezzata. Ma, finalmente, un giorno venne al re voglia di conoscere a che punto veramente colui potesse giungere della profondità del mare, e gli ordinò di andare a ripigliare una palla di cannone, che sarebbe stata scagliata nel faro di Messina.
Niccolò Pesce protestò che avrebbe obbedito, se il re insistesse, ma che sentiva che non sarebbe mai più tornato a terra. Il re insistette.
Niccolò salto subita nelle onde; corse corse senza posa dietro la palla che s’affondava veloce; la raggiunse in quella furia d’inseguimento e la raccolse nelle sue mani. Ma ecco che, alzando il capo, vide sopra se le acque tese e ferme.
Lo coprivano come un marmo sepolcrale. S’accorse di trovarsi in uno spazio senz’acqua, vuoto, silenzioso. Impossibile riafferrare le onde, impossibile riattaccare il nuoto.
Colà restò chiuso, colà terminò la sua vita.
Girovagando per Napoli, più precisamente nei pressi di Via Mezzocannone, potrete scorgerne un caratteristico bassorilievo.
Il bassorilievo rappresenta un uomo villoso, con un lungo pugnale nella mano destra: il coltello di cui Niccolò Pesce si valeva per tagliare il ventre dei pesci dentro i quali viaggiava. L’iscrizione al di sotto, invece, è molto successiva e data al Settecento.
A Napoli tuttavia la memoria del Colapesce conserva ben più della semplice leggenda, ma possibili reminiscenze del culto tardo pagano dei figli di Nettuno, ossia dei sommozzatori dotati di poteri magici, in grado di trattenere il respiro in apnea per poterne carpire i tesori e i segreti.
Essi, accoppiandosi con misteriosi esseri marini (probabilmente le foche monache) e con l’aiuto della sirena Partenope, acquistavano tali poteri magici.
Agli adepti del culto, sopravvissuto al periodo antico, era dato il nome in codice di pesci Nicolò e con quel nome, e in assoluto segreto, pare che l’ultimo di essi sia stato usato dai servizi segreti alleati per ricerche sul fondo del golfo di Napoli nel corso dell’ultima guerra e dell’immediato dopoguerra.
Ma il fascino e le suggestioni di questa leggenda, non si sono fermati a Napoli.
In Sicilia, nella versione palermitana, si narra di un certo Nicola (Cola di Messina), figlio di un pescatore, soprannominato Colapesce per la sua abilità nel muoversi in acqua; di ritorno dalle sue numerose immersioni in mare si soffermava a raccontare le meraviglie viste e, talvolta, a riportare tesori.
La sua fama arrivò al re di Sicilia ed imperatore Federico II di Svevia che decise di metterlo alla prova: il re e la sua corte si recarono pertanto al largo a bordo di un’imbarcazione e buttarono in acqua una coppa che venne subito recuperata da Colapesce. Il re gettò allora la sua corona in un luogo più profondo e Colapesce riuscì nuovamente nell’impresa. La terza volta il re mise alla prova Cola gettando un anello in un posto ancora più profondo ed in quell’occasione Colaspesce non riemerse più.
Secondo la leggenda più diffusa, scendendo ancora più in profondità Colapesce vide che la Sicilia posava su 3 colonne delle quali una piena di vistose crepe e segnata dal tempo, secondo un’altra versione essa era consumata dal fuoco dell’Etna, ma in entrambe le storie decise di restare sott’acqua, sorreggendo la colonna per evitare che l’isola sprofondasse. Ancora oggi si troverebbe quindi a reggere l’isola.
Una versione catanese della leggenda vuole che il sovrano, interessato alla conoscenza del mondo e delle curiosità fenomeniche, chiedesse a Colapesce di andare a vedere cosa vi fosse al di sotto dell’Etna e farne testimonianza.
Colapesce scese e raccontò di aver visto che sotto l’Isola vi fosse il fuoco e che esso alimentava il gigantesco vulcano. Federico ne chiese una prova tangibile, così il giovane disse che avrebbe fatto giungere al suo re la prova che desiderava, ma che sarebbe morto nel fargliela pervenire.
Colapesce si tuffò con un pezzo di legno per non fare più ritorno, mentre il legno – che notoriamente galleggia – tornò in superficie bruciato.