Nell’inverno del 1943-44 la realtà di Napoli era davvero terribile, la fame dominava su tutto, la lotta bestiale per sopravvivere era quotidiana, di fatto si stava assistendo al crollo morale di un popolo senza più nessun orgoglio, né dignità.
Edoardo Nicolardi, dirigente amministrativo presso l’ospedale di Napoli Loreto Mare, scrisse il testo della canzone, Tammurriata nera, prendendo ispirazione da un episodio accaduto nel reparto maternità: una giovane aveva dato alla luce un bambino di colore e il trambusto che ne era derivato aveva scatenato la fantasia dell’autore.
La canzone, musicata poi dal grande E. A. Mario, divenne a suo modo, un canto di guerra: non celebrava né vittorie né resistenze eroiche, ma la dura battaglia per la sopravvivenza combattuta da un popolo che aveva resistito con grande dignità ai tedeschi e poi veniva umiliato dalla fame e dai liberatori.
L’autore non cerca di inquadrare la signorina dandole una sua identità, essa è una delle tante, che ha avuto un figlio, nero, da un nero “marocchino“ o da un nero americano. L’occhio del poeta va a registrare le voci e i toni del coro delle commare e dei passanti, e cioè di quel teatro di pietà, malignità, disperazione, sarcasmo, che si tiene da sempre, ogni giorno, nelle vie della città. C’è, nel coro, la voce dei napoletani che si illudono di nascondere la verità sotto il velo delle parole, ‘o chiamma Ciro, e c’è l’ amarezza, anche cattiva, di chi invita ad arrendersi ai fatti: il bambino, anche se la mamma ‘o chiamma Giro, Ciro, è un fatto nero: non un nero sbiadito, che possa passare per un bruno mediterraneo, ma è niro niro, comm’a cché.
Ma le parole non si arrendono: interviene a difesa la commara apparatrice, rinacciara e cosetora, la sarta pronta a ricucire strappi e lacerazioni di ogni tipo, materiali e morali: ella oppone alla cruda chiarezza del fatto niro niro la forza insondabile del mistero. Può capitare che una donna, legittimamente incinta del marito legittimo, durante la gravidanza guardi, con eccessiva intensità, la faccia di un uomo e ne resti colpita dal colore. Ebbene, l’imprudente gravida può restare sott”a botta ‘mpressiunata : e può capitare che il figlio abbia le fattezze non del padre legittimo, ma di quel tizio che così fortemente ha impressionato la madre. Ma la commara maligna dà il colpo di grazia: fa capire, sarcastica, che l’impressione non ha colpito gli occhi, ma un’altra parte del corpo, ha cugliuto buono ‘o tiro e di che tiro si tratti, lo si capisce, in tutta chiarezza, dal fatto niro niro che ne è venuto fuori.
Nella seconda parte, le cui strofe finali non sono di Nicolardi, c’è invece tutta la maestria degli artisti di strada di nascondere dentro a strofette apparentemente prive di senso, una critica feroce verso la società ed i costumi della Napoli di quel periodo, critica ripresa altrettanto duramente dall’opera teatrale “Napoli Milionaria”.
Infatti nelle strofe possiamo trovare veramente di tutto. Dalla triste fama di stupratori delle truppe marocchine (vedi “La Ciociara”), alla facile corruttibilità della Military Police, ad una parte di popolazione che deve sottostare alla borsa nera, mentre la parte più infima, fatta di ” trafficanti e recuttari magnaccia “, che fino a ieri mangiavano bucce di pomodoro, oggi si sono arricchiti e si possono permettere Fresell e carn cott, lucrando sulle spalle di povere prostitute e femminielli a cui tocca il lavoro sporco, quello che fete ‘e cane muorto. Il coro che ne consegue, è un baccanale di rime e di assonanze, in cui caramelle corrisponde con zitelle e con burdelle, freselle e zelle, ricotto con carnacotta e per finire,viene distorto e stravolto il titolo di una canzone di Al Dexter, cantata da Bing Crosby: è un’ esplosione di immagini brevi e scorciate, frammenti e dettagli di una tragedia terribile.
Sicuramente la versione cantata dalle varie Compagnie di Canto popolare è magistrale, ma l’interpretazione che Peppe Barra dà di questa canzone – di questo cantico- è insuperabile, perché la voce dell’artista corrisponde per estensione e qualità alla misura della musica e alla potenza espressiva delle parole: testo, musica e voce obbediscono a un solo segno: un’asprezza che viene dalle viscere e sale fino al cielo, che salva sé stessa nel deridere sé stessa, e rovescia sui violentatori la maledizione della violenza. Cantata da Peppe Barra, la canzone è quello che nell’intenzione di Nicolardi e di E.A.Mario doveva essere: una evocazione allucinata di spiriti.