Dopo un anno di inchieste e audizioni, la commissione bicamerale d’inchiesta sulle mafie ha pubblicato, nelle scorse settimane, il rapporto sulla libertà di stampa nel nostro paese. La situazione del giornalismo italiano è preoccupante. Rispetto allo scorso anno l’Italia è scivolata di 24 posizioni nella classifica degli Stati più “imbavagliati”, collocandosi al 73° posto e raggiungendo il triste primato del paese con il più alto numero di reporter minacciati e sotto scorta del mondo occidentale.
“Informazione contigua, compiacente o persino collusa con le mafie”.
Questo è, in sintesi, il ritratto della commissione antimafia. I numeri parlano chiaro: dal 2006 al 31 ottobre 2014 si sono registrati 2060 atti di ostilità nei confronti dei giornalisti, con 421 atti di violenza solo nei primi mesi del 2014. In sostanza, tre ogni due giorni. Molti dei giornalisti minacciati sono sotto i 30 anni. Il primato di regione in cui si registra la maggior parte di episodi di minacce a danno di giornalisti è il Lazio: ben 26 dall’inizio del 2015 davanti alla Campania con 20 e alla Puglia e alla Lombardia con 18. Ma le minacce sono l’aspetto più evidente di un sistema viscido e invisibile che non permette la necessaria libertà di espressione. Accanto a pallottole per posta, auto bruciate e minacce verbali, c’è infatti anche l’arma economica. E cioè i ricatti della precarietà contrattuale – con pezzi pagati poco o niente e licenziamenti facili e improvvisi – e il ricorso alle cause di diffamazione ingiustificate. Secondo i dati forniti da Reporters sans frontières (rapporto pubblicato a febbraio 2015) sono state 129 tra gennaio e ottobre del del 2014, mentre nel 2013 il dato si era fermato a 84.
Una professione costretta non solo a misurarsi con angherie e precarietà peculiari dell’era contemporanea, capaci di minare in più o meno pari misura qualsivoglia categoria, ma che si è vista anche costretta ad imparare a destreggiarsi tra ben più articolate e tortuose dinamiche.
La libertà di stampa, quell’imprescindibile diritto/dovere sul quale ogni giornalista dovrebbe fortemente ancorare le sue gesta e lasciarsi guidare nella ricerca del vero, appare un’ideale utopistico, da applaudire durante la cerimonia commemorativa della vittima della mafia di turno, per poi tornare, in punta di piedi e a testa bassa, a praticare il mero e qualunquistico “lavoro di scrivania”.
Lasciare mordente e spazio alla libertà di stampa, delinea uno scenario eccessivamente tortuoso, capace di comportare troppe rinunce e di svariata natura per un giornalista. Questo è quanto si evince a chiari e marcati toni dai numeri che fotografano la situazione attuale.
Eppure, prima di mollare la presa e compiere il famigerato e provvidenziale “passo indietro”, piuttosto che al cospetto della “lauta mazzetta” o della stretta di mano che decreta “quel genere di compromesso”, un giornalista dovrebbe chiedersi se “fa” il giornalista o se lo è: se non predilige la libertà di stampa no, non è un giornalista.
Se tutti i giornalisti fossero in grado di professare la libertà di stampa personificherebbero un autentico “esercito da temere” e allora si che nessuno avrebbe nulla da temere.