Cosa spinge un essere umano a lasciare la propria terra, la propria casa, la famiglia, gli affetti, gli amici, il lavoro e la sua stessa identità, affrontando un viaggio senza ritorno, pericoloso e difficile, per un futuro incerto e senza garanzie di successo?
La convinzione che quello che incontrerà durante il suo cammino, per afferrare il miraggio della Terra Promessa, non potrà mai essere peggiore di quello che si è lasciati alle spalle.
Si perchè a quest’essere umano, la casa gliel’hanno fatta saltare in aria, la terra, la sua terra, non è più sua ma dell’invasore, la famiglia gli è stata sterminata, il padre sgozzato, la sorella rapita e violentata, il figlio trucidato o peggio, forse è stato arruolato nelle fila dei bambini-soldato, lui non può saperlo, glielo hanno portato via con la forza e non c’è modo di ritrovarlo. Il lavoro è diventato schiavitù, in un paese dove tutto è ridotto in macerie, dove ci si azzanna per un tozzo di pane ammuffito, il concetto di lavoro retribuito, è stato annientato da chi ti permette di restare in vita a seconda dell’umore di quel giorno.
E allora a quest’essere umano, si perchè di un essere umano si tratta, non bisogna mai dimenticarlo, che cosa resta da fare?
Fuggire dalla disperazione, affrontare l’ignoto e sperare di sopravvivere al viaggio. Ma il viaggio, spesso, troppo spesso, si trasforma in un inferno.
Questa è una delle tante storie, uno dei tanti inferni, uno dei tanti sogni di sopravvivenza.
Babajan: “Ho lasciato il mio paese, l’Iran, nel 1999. Sono arrivato ad Istanbul ma ci sono rimasto solo per una settimana perché era una città troppo pericolosa. Lì ho comprato un passaporto falso e sono arrivato a Sarajevo in aereo. Ho pagato alla mafia mille marchi perché dicevano che pagando si poteva attraversare il confine. Però sono stato fermato ugualmente. La mafia e la polizia, si erano messe d’accordo. I trafficanti erano croati come i poliziotti e tra compaesani ci si intende…
La Polizia mi ha portato a Jezevo, uno dei centri per stranieri della Croazia e quando mi hanno lasciato andare, dopo due anni, ero solo, senza documenti. Allora ho deciso di provare ancora ad arrivare in Slovenia. Lì doveva essere diverso, ero sicuro. Per sei volte ho tentato di attraversare il confine, per sei volte mi hanno fermato. Ho fatto altri sei mesi rinchiuso dentro Jezevo.
Nel centro gli avvocati non entravano mai e restarci chiusi dentro per due anni era la normalità. I poliziotti picchiavano tutti ogni giorno. Alcuni giornalisti a volte arrivavano e cercavano di indagare, di capire la situazione, ma non potevano mai parlare con noi detenuti e alla fine nessuno scriveva mai niente.
Nelle stesse celle con gli uomini c’erano donne e bambini anche piccolissimi.
Quando mi hanno liberato ero stanco di cercare di passare il confine e sono rimasto per un anno in Croazia perché mi avevano detto che avevo buone possibilità di ottenere l’asilo. Dormivo nella chiesa di Madre Teresa, a Zagabria. Preferivo stare lì perché nel campo per i rifugiati non ci volevo andare. Il campo è in mezzo alla foresta e attorno non ha niente. Dopo un anno mi hanno detto, senza spiegazioni, che la mia richiesta di asilo era stata semplicemente rigettata.
Così, nel 2004, sono scappato di nuovo verso la Slovenia. Stavolta però ho attraversato il confine nel punto giusto, più vicino all’Ungheria, in un posto dove la polizia non ferma nessuno perché è difficilissimo passare da lì, attraverso la foresta.
La strada me l’avevano insegnata a Jezevo. Jezevo è un’ottima “no border university”, la migliore.
Era il I settembre 2004 quando finalmente sono arrivato a Lubiana, dove ho trovato l’asylum home.
Sono rimasto nella casa per dieci mesi. Per tutto questo tempo ero libero e avevo di nuovo un documento da richiedente asilo. Non potevo lavorare ma lavoravo lo stesso.
Adesso sono un rifugiato politico riconosciuto, mi danno anche dei soldi, pochi, ma tutti i mesi.
Ci ho messo sette anni.