È il personaggio più atteso della quarta giornata dell’Ischia film festival: approdato a sorpresa nell’isola verde, innescando quel lecito scalpore che contorna, inevitabilmente, il successo che gli deriva dal tripudio di ammirazione e consensi che l’interpretazione conquistata sul set gli ha meritatamente consegnato.
Marco Palvetti, l’attore che ha conferito un volto e un’identità a Salvatore Conte è senza alcun dubbio tra i personaggi più amati di Gomorra-La Serie, la seguitissima fiction ambientata principalmente nell’area nord di Napoli e che ha portato in scena stralci di una realtà cruda, forte, sanguinaria.
Marco in quelle realtà che ha respirato sul set cinematografico ci è nato, la sua storia umana, difatti, affonda le radici in quei grovigli di opportunità mancate e vicoli ciechi, tortuosi e fatiscenti che contraddistinguono talune periferie partenopee: “Sono nato in quel contesto, ma non ho mai vissuto quelle realtà riportate nella serie, sia per merito della mia famiglia, sia perché trascorrevo gran parte del mio tempo ad allenarmi e volevo fortemente che il cinema fosse la mia strada, tant’è vero che pressoché adolescente sono partito per frequentare l’Accademia Nazionale Silvio D’Amico, a Roma.”
Un amore sconfinato quello che Marco nutre per il cinema, tant’è vero che non ha saputo sottrarsi al richiamo delle sirene ischitane, seppur non sia tra gli attori in gara e ha voluto presenziare al festival, conferendo, così, con la sua presenza, un valore aggiunto assai pregevole.
Un testimonial probabilmente inconsapevole non del riscatto della periferia, ma di quella “normalità” che germoglia anche e nonostante tutto alle pendici del Vesuvio.
I capelli raccolti nello stesso codino del famigerato personaggio con il quale divide il successo, capace di conferirgli un aspetto dal quale, però, trapelano tutt’altre sensazioni: umiltà, garbo, eleganza, cortesia e soprattutto una disponibilità, signorile ed instancabile.
Così, tra un sorso di vino e uno scatto concesso a fan e fotografi, entriamo nel vivo del “caso” che viaggia di pari passo con il successo della fiction: “Quelli di Gomorra sono tutti personaggi “morti”, non c’è nulla da ammirare in loro, vivono relegati nell’esigenza di doversi sempre guardare le spalle, l’unico aspetto che può affascinare le persone è il potere che detengono, ma questo è una inclinazione innata della psiche umana che s’innesca sempre al cospetto di personaggi e personalità “forti”.
Gomorra è una pellicola come tante che a differenza delle commedie più leggere non consegna “la solita pillola di buonismo”, ma uno stralcio di realtà, più o meno arricchita di fantasia, ma pur sempre adagiata su una fetta di realtà. Chi reputa che sia una pellicola che “inneggia alla criminalità” palesa una visione distorta dei fatti e in un certo qual modo ostenta una forma di chiusura e rifiuto verso la presa di coscienza che quelle vicende dovrebbero innescare. L’intento di chi fa cinema è anche quello di portare in scena realtà scomode e che le frasi della fiction siano diventati degli autentici tormentoni è una diretta conseguenza del successo. È quello che accade con tutte le pellicole di successo, non vedo perché scandalizzarsi del fatto che sia così anche per Gomorra. Se i bambini, i ragazzi che vivono in quei contesti ergono i personaggi della fiction a modelli da imitare, accade perché quegli esempi li vedono radicati nella loro vita reale. Le cause che li inducono ad incamminarsi verso strade sbagliate sarebbe più opportuno ricercarle tra i fatti e le persone con le quali si rapportano un volta spenta la tv.”
Marco è un ragazzo semplice ed incredibilmente schietto ed è impressionante come il suo sguardo, mentre s’immerge tra pensieri ed esperienze, appaia profondamente “diverso” rispetto a quello pregno di spietato e sanguinario livore che, invece, contraddistingue il suo personaggio. Questo è solo uno dei primi e più superficiali segnali che ne sottolineano il sopraffino talento: “Fare l’attore è un “gioco serio”. Nei miei personaggi non m’immedesimo mai, in primis perché non credo di essere interessante quanto loro, in secondo luogo perché credo che sia proprio questo il modo in cui il lavoro di attore esige d’essere svolto.”
Ma quanto c’è di Marco in Salvatore Conte?
“Non abbiamo proprio nulla in comune. Non nascondo che, io per primo, nel rivedermi, talvolta rabbrividivo, proprio perché mi straniva percepire il mio personaggio tanto lontano da me, nonostante gli avessi dato in prestito le mani, il mio aspetto. Salvatore Conte, però, è un grande osservatore e questo è l’unico aspetto che mi accomuna a lui. Anche io, da bravo attore, amo molto osservare ed è una caratteristica che contraddistingue la mia persona anche nella vita, in generale. Però sono molto meno cervellotico di lui.”
Già, Salvatore Conte: un personaggio forte che potrebbe assumere le pericolose fattezze della scomoda ombra che aleggia sul proseguo della carriera dell’attore trasferitosi a Roma nel 2005, ma Marco scarta con ferma convinzione questa ipotesi: “Non ho paura di portarmi dietro l’etichetta di Salvatore Conte, non credo che possa in nessun modo condizionare la mia carriera. Da quell’interpretazione trapela il valore del lavoro che ho svolto e credo che vada soltanto apprezzato. Ho recitato un ruolo e ho dato tutto me stesso per riuscirci nel migliore dei modi, così come sempre mi riproporrò di fare tutte le volte che verrò chiamato a calarmi nei panni di un personaggio.”
Del resto, proprio come Marco con estrema lungimiranza ha affermato, il cinema è una proiezione del mondo raccontata e riportata attraverso una cineripresa che ben si presta all’interpretazione unica e soggettiva che nasce dall’impatto con la sfera emotiva di ciascun spettatore. Un film, come il mondo, è una questione di punti di vista.
Marco, un ragazzo come tanti cresciuto in provincia di Napoli, ha semplicemente e spontaneamente saputo essere altro ed è tornato in quella Napoli etichettata come “difficile” per interpretare un ruolo.
Sul set, Marco Polvetti “si trasforma” in Salvatore Conte, ma coloro che incontrandolo nella vita ordinaria tendono a dare per scontato di ritrovarsi al cospetto di una maschera di sanguinario e brutale cinismo, dimostrano d’essere incapaci di guardare il mondo senza incamerare lo sguardo in un gretto e qualunquista schermo televisivo.