Figure sospese tra mito e storia, fatti di Napoli, realtà tradotta in misteri: Agata Arcamone.
Episodi concreti, talora imbrattati di sangue e poi trasfigurati in leggende ancora vive tra i vicoli della bella Partenope.
La città e il fascino dell’occulto, una miscela unica dal sapore antico, la cui origine si perde nella notte dei secoli.
Quali e quante storie hanno animato, nel corso dei secoli, le notti dei Napoletani? Quali e quanti racconti sono stati tramandati di padre in figlio fino a giungere ai giorni nostri, praticamente intatti?
Anche il Cinquecento partenopeo ha saputo fornire materia prima alle pagine fascinose dei cantastorie di Megaride. E parlando di presenze occulte, non si può non menzionare il caso del monastero di Sant’Arcangelo a Baiano, una delle prime strutture religiose edificate a Napoli dagli Angioini in segno di devozione per la vittoria riportata sugli Svevi.
Venne edificato nella antica zona furcellensis su un luogo di culto già dedicato a San Michele Arcangelo, sui resti di un precedente sacello pagano. La denominazione a Baiano era dovuta alla circostanza che nella zona risiedeva una folta colonia di cittadini provenienti da Baia.
Il monastero godeva del patronato sulle acque della Fistola che sgorgavano nei pressi grazie ad un antico privilegio reale.
Oggi la struttura è deserta e, si dice, infestata dagli spiriti. Ma non è sempre stata così.
Ad esso potevano accedere solo novizie provenienti da famiglie di acclarata nobiltà napoletana e la conferma si è avuta con la pubblicazione di nomi altisonanti come Giulia Caracciolo, Agata Arcamone, Livia Pignatelli, Chiara Frezza e Luisa Sanfelice citati in un libello apparso in Francia nel 1829, intitolato “Cronache del convento di Sant’ Arcangelo a Baiano”, attribuito a Stendhal, tradotto e stampato a Napoli nel 1860.
Lo stesso Benedetto Croce aveva trovato tracce dell’episodio in uno scritto seicentesco “Le counvent de Baiano” e parla della sua scoperta nei “Nuovi saggi sulla letteratura italiana Seicento” edito nel 1931.
La storia ci porta al 1540 quando un gruppo di novizie, sacrificate dai genitori, fu costretto a varcare la soglia dell’allora convento di Forcella, erano in quattro e tutte avevano già provato il dolce frutto dell’amore. Impossibile quindi, costringerle alla clausura, la repressione e la regola non erano fatte per loro.
Agata Arcamone, la più bella e giovane tra le suore, insieme a Giulia Caracciolo e Livia Pignatelli, pensò bene di darsi da fare, intrecciando una tresca amorosa con alcuni nobili del luogo che in quegli anni frequentavano il complesso religioso di Forcella.
Si parlò di orge, strani dispetti, rivalità, vendette e malignità consumate nell’oscurità delle celle monastiche.
Le tre suore furono anche punite dal vescovo, ma le voci sulle loro vicende non si placarono. Poi i fatti presero una piega sconvolgente.
Accadde quando alcuni dei giovani coinvolti nello scandalo a “luci rosse” furono trovati privi di vita, assassinati in maniera brutale. Anche due delle monache furono uccise: morirono avvelenate, insieme alla badessa. Neanche un’indagine interna riuscì a fare chiarezza sull’accaduto fino a quando, nel 1577, non si decise la chiusura del convento.
Il monastero di S. Arcangelo a Baiano era da tempo motivo di pettegolezzo, nei salotti della nobità, per le pratiche sessuali delle monache che lo abitavano, al punto di spingere le autorità ecclesiastiche, ad inviare come ispettore il severo Andrea Avellino, divenuto poi santo, ad indagare.
Andrea Avellino, già padre spirituale del convento, accertatosi delle frequenti orge che si svolgevano tra le sacre mura, raccomandò al Cardinale Paolo Burali d’Arezzo il trasferimento delle monache nel convento di San Gregorio Armeno e la immediata chiusura della struttura, che abbandonata allo stato laicale si trasformò in poco tempo come un rudere.
Delle monache poi, non si seppe più nulla, come fossero svanite e disperse nella polvere dei secoli.
Agata, fu detto, abbandonò di nascosto Napoli e di lei, da quel giorno, si perse ogni traccia. La leggenda nata da questa storia vera, vuole che lo spettro della dama, ancora oggi si muoverebbe, con fare sinistro, tra i resti dell’antico monastero, alla ricerca di quella perduta libertà che tanto le era stata negata.
Per gli studiosi dell’esoterismo la vicenda riveste un grande interesse e la sua drammaticità può essere compresa solo con una lettura specialistica, che tiene conto di alcuni dettagli:
- il monastero poggiava su una base pagana, luogo di culto scelto dal sacerdote rabdomante in grazia delle forze magnetiche che dovevano favorire lo svolgersi dei “misteri”
- il divieto di accedervi per le donne di umili origini.
- la presenza contigua di un corso d’acqua “rituale
Questa leggenda, sui cui Stendhal aveva redatto il libello, è diventata successivamente, materiale di interesse cinematografico: “Le monache di Sant’Arcangelo” è un film erotico-conventuale del 1973 diretto dal regista Domenico Paolella, con Ornella Muti diciottenne.
Purtroppo la leggenda è l’unica cosa rimasta. Il monastero, infatti, è un edificio disabitato e la chiesa, di proprietà di una confraternita, è chiusa ormai da decenni.
Il vecchio convento è citato anche dal Boccaccio nel Filocolo, perché per poco vi soggiornò la sua Fiammetta.