Che siano le prime luci dell’alba o le ultime della sera, non c’è nulla di più rilassante dell’ascoltare il gorgoglio della caffettiera, inalare l’aroma che ne fuoriesce, pregustando il sapore del denso liquido nero.
Nella città partenopea il caffè è un rito, un privilegio che va condiviso a qualsiasi ora del giorno. Se a Napoli si riceve un ospite, è quasi un obbligo morale offrire un buon caffè fatto in casa, se invece, si incontra un conoscente per strada, l’obbligo diventa una buona scusa per andare al bar e in genere il bar, è sempre lo stesso, quello di fiducia, quello che “come lo fa lui, nessuno.”
Ma andiamo per gradi.
La pianta del caffè è originaria dell’Abissinia, attuale Etiopia, da cui si diffuse in Arabia e in Turchia. Nel Seicento, i chicchi neri dell’arabo qahwa giunsero in Europa a bordo delle navi dei mercanti veneziani, partendo proprio dalla Turchia, dove la parola kahve, portata in laguna, fu italianizzata in caffè.
Ma fu Vienna la prima città europea che ne fece una vera e propria istituzione, dando vita, alla fine del XVII secolo, ai primi Kaffeehaus, i famosissimi caffè viennesi, locali di piacevole degustazione della bevanda ottomana.
Vienna dunque, divenne il trampolino di lancio della cultura del kaffee, nonché il punto di partenza di un ponte culturale con Napoli attraverso il quale passò anche la bevanda nera.
Dalla capitale dell’Impero austriaco proveniva Maria Carolina D’Asburgo-Lorena, sposa nel 1768 di Ferdinando di Borbone. Fu proprio lei a radicare la tradizione del caffè nella cultura napoletana.
Il caffè fu insomma simbolo e strumento diplomatico nell’asse Vienna-Napoli. Da quest’incrocio, la città partenopea divenne terminale del percorso e capitale italiana del caffè con la sua reinterpretazione di tostatura più apprezzata.
Della viennese Maria Antonietta di Francia, sorella di Maria Carolina, si racconta che prima di avviarsi al patibolo volle bere proprio una tazza di caffè.
Che si tratti di fantasia o realtà, furono comunque le due sorelle austriache a lanciare a Napoli, l’infuso di chicco turco macinato, divenuta poi, una tradizione talmente radicata da aver consacrato in Italia e nel mondo l’espresso napoletano.
Un passo fondamentale nella storia del caffè a Napoli fu compiuto con l’invenzione, nel 1819, della Cuccumella, la caffettiera napoletana che alternava il metodo di preparazione per decozione alla turca al metodo di infusione alla veneziana, con un sistema a doppio filtro.
Ma perché, nonostante l’infuso nero non abbia radici partenopee, chiunque metta piede a Napoli resta attratto dalla tazzulella più famosa al mondo?
Il più classico dei luoghi comuni popolari vuole che il segreto sia l’acqua, storicamente buona nella città vesuviana; ma si tratta, appunto, di un semplice luogo comune.
Napoli è maestra di reinterpretazioni e anche il caffè lo dimostra. Il vero segreto è racchiuso nella miscela napoletana e nella sua particolare tostatura, che le conferisce una più scura colorazione rispetto a quella delle altre regioni italiane e straniere.
Si dice della miscela napoletana che è cotta al punto giusto. Ciò significa che le è prestata una grande attenzione durante il processo di torrefazione, che se fosse solo di poco più lunga causerebbe la bruciatura della miscela stessa.
Spiegazione a dir poco scientifica, dettata anche dal grande Eduardo, nella famosissima scena del caffè, nella commedia Questi fantasmi.
Un’altra avvertenza che va assolutamente seguita, sia essa la Cuccumella o la più moderna Moka, è che non bisogna mai pulire la caffettiera con saponi o detersivi di qualsiasi genere. La caffettiera va sciacquata con sola acqua bollente o al massimo con l’aiuto di uno spazzolino per lavare più accuratamente il filtro e con aceto o limone per disinfettarla.
E anche in questo caso c’è una spiegazione scientifica: quanto più si usa la macchinetta del caffè, tanto più resta impregnato l’aroma, se si lavasse la caffettiera col detersivo, tutto il lavoro andrebbe perduto e il caffè non sarebbe più buono.
Per i napoletani, essere costretti a comprare una macchinetta del caffè nuova, è quasi un lutto, in poche parole, più è vecchia la caffettiera, più felici e soddisfatti sono.
Da qui, il detto: “Solo due cose non si prestano, la moglie e la macchinetta del caffè“.
Per i napoletani prendere “na tazzulella ‘e cafè“, oltre ad essere un gesto ospitale e un momento di pura convivialità, diventa quasi antidoto contro tutti i mali e i problemi della vita.
Nel 1977, Pino Daniele incise la sua famosissima “Na tazzulella ‘e cafè“, dove esplicitamente denuncia l’usanza dei politici e dei personaggi pubblici, di offrire sempre un caffè per rabbonire il popolo partenopeo, come se questo bastasse a risolvere le problematiche sociali, senza curarsi di fare null’altro.